Inizio brechtiano per la stagione milanese: due spettacoli a confronto

C’è poco da fare: un classico è un classico. E, come un diamante, un classico è per sempre: non perché una seppur perdurante oligarchia modaiola ne abbia sancito l’intramontabilità; al contrario, perché e nella misura in cui, quel che dice riesce ancora a parlare, in eco di consonanza, a pubblici diversi e lontani nello spazio e nel tempo. Succede così a Shakespeare, Cechov, Pinter, Becket, Pirandello o, appunto, Brecht; succede che, passata la fase fisiologica della presa di distanza – l’eccessiva prossimità, ahinoi, non sempre è funzionale ad una corretta comprensione: ieri ancora non ha il respiro universalistico della storia; l’altro ieri sì… i classici tornino ad imporsi, senza timore alcuno di smentita. Così succede che, pur senza bisogno di appellarsi ad un qualche anniversario, l’incipit della stagione teatrale milanese veda la messa in scena di due lavori su Brecht: “Bertornato, signor Brecht!”, una biografia in musica, che la Dual Band, compagnia dalla duplice anima, musicale (Mario Borciani è maestro del Conservatorio) e teatrale (Anna Zapparoli regista, oltre che attrice), propose, vent’anni fa, come suo primo lavoro – poi cavallo di battaglia replicato in Italia e all’estero –; e Francesco Frongia, regista e scenografo visionario, oltre che membro storico del Teatro Elfo Puccini, ha scelto “Tamburi nella notte” come testo da portare in scena con i neodiplomati dell’Accademia dei Filodrammatici, in apertura di stagione dell’omonimo teatro. In entrambi i casi due scelte azzeccate, perché, anzi tutto, sensate.

Sensato, infatti, scegliere Brecht, se la cifra della tua compagnia gioca a mescolare musica e recitazione, canto e divertissement, ma anche la serietà di uno studio rigoroso sia sul versante strumentale, che su quello attorale, pur restituito con una leggerezza, che spesso, non manca di affondi socioculturali (penso a quel “Salta, Farid!”, ad esempio, che, con la consueta nota musical teatrale affronta con garbo, poesia e ironia la tematica dell’emigrazione, dello sfruttamento del lavoro minorile, e lo fa portando in scena un fatto di cronaca e coinvolgendo attori, o aspiranti tali, di varie età e livelli di preparazione, in un’ottica di teatro condiviso e inclusivo, che nasce come un gioco, ma poi, chissà, che non si trasformi in desiderio e urgenza). Sensato scegliere Brecht, anche, se quello che si ha da comporre è un coro teatrale, in cui, ai giovanissimi neo attori, sia chiesto di mostrare le differenti competenze acquisite; perché salire sul palco non è il prurito di un istante e, per gettare il cuore oltre l’ostacolo, occorre una disciplina dura, capace di trasformare la fascinazione per il palcoscenico in abilità professionali e professionalizzanti.

Bentornato, signor Brecht!

Così la Dual Band sceglie di scompaginare l’iniziale pas à deux (vent’anni fa, in scena la Zapparoli con accompagnamento musicale del Borciani, compositore, oltre che esecutore) in una messa in scena corale, capace di coinvolgere la famiglia allargata: Benedetta e Beniamino Borciani (figli della coppia e con alle spalle una solida formazione attorale e musicale, fra Teatro Stabile di Torino, Conservatorio e Scala di Milano), Lucrezia Piazzolla (anch’essa a suo tempo voce bianca della Scala e con ruoli di sempre maggior responsabilità, in compagnia) l’attrice e cantante Gaia Coppola, e, in questo progetto, Martino Dondi (maestro di Conservatorio, oltre che figlio d’arte di quel Ruggero, che da decenni calca le scene e ha lavorato con i massimi registi – da Strehler a Castri, da Fo a Boso, fino a De Capitani, Shammah, Rifici), oltre cha la Zapparoli, in scena, e Mario Borciani, coadiuvato, al pianoforte, da Federica Zoppis. “Bertornato, signor Brecht!” è la riproposizione dell’interrogatorio, a cui fu sottoposto il drammaturgo bavaro di origine ebraica, scampato in America a seguito della diaspora antisemita durante la Seconda Guerra Mondiale. Cinque quadri, intervallati da altrettanti momenti salienti de “Il cerchio di gesso del Caucaso”, variamente declinato con aggiunta di poesie e canzoni del repertorio brechtiano. Una metafora: della condizione del migrante (tema caro, come si diceva, alla compagnia e, a parte ciò, di un’urgenza insoffocabile, ai nostri giorni) e, in contro luce a questo, del costo della bontà – come non pensare a Sezuan? La messa in scena gioca con vari linguaggi: quasi dimentichi dei “cartelli” di brechtiana memoria – curioso: lo stesso fa Frongia, nel suo spettacolo -, oltre a musica (suonata dal vivo), canzoni e una recitazione partecipata, a tratti – a tratti brillante, ironica o farsesca -, l’elemento “di bottega” della Dual Band recupera l’arte emozionale del teatro d’ombre, d’effetto sicuro nel riportarci a un’atmosfera infantile e quasi fiabesca, abbassando le nostre difese.

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E poi inventa suggestioni luminose magiche, che quasi stridono con la basicità di costumi più caratterizzanti, che sartorialmente cuciti: talvolta solo un complemento, indossato, così – l’essenzialità dell’out fit total black a vista, che fa tanto laboratoriale -, quasi a dirci della consapevolezza dichiarata che siamo nella finzione scenica, ma che, in questo patto, un viaggio condiviso e di senso è ancora possibile. Gli attori sono generosi – ciascuno nella propria corda -, alternando registri e stili, ritmi e atmosfere, cavalcando le une e chinando li capo alle altre, in una perfetta logica di servizio.

tamburi OK

Di tutt’altro tono, il Brecht di Frongia. Alle sue spalle la produzione – e la cifra – dell’Accademia; la si riconosce subito nella quasi sfarzosità di scene e costumi. Accurati e ben disegnati, vestono e truccano i personaggi come in un teatrino delle meraviglie – i volti cinerei e dai particolari accesi, in perfetto stile grottesco brechtiano – e li caricano, come omini a molla, dei caratteri stereotipati di quella concezione teatrale. Non ne può venir fuori che un’opera satirica, di tutto e di tutti: della guerra e del Secondo Reich, questo sì, ma anche dello Spartachismo, della borghesia e dell’utopia, della famiglia borghese e dei suoi stereotipi, piccoli interessi e beceri intrighi, non meno che dell’ideologia, qualunque essa sia, ciecamente votata all’ideale e cui è comunque disposta ad immolare la pur piccola felicità – o, quel che ne resta – di un’esistenza individuale già provata e distrutta da una guerra comunque insensata. Ad una banalità del male ante litteram, in questa riduzione scenica di Emanuele Aldrovandi sembra far da controcanto l’ inutilità del male. È inamovibile, il reduce di guerra, su questo: c’è bisogno di bellezza, non di rivoluzione e nessuno scandalo borghese – il riferimento è alla gravidanza indesiderata ed eteronima della fidanzata – può valere più di quella ricerca di casa, amore, senso e bellezza, che sembra essere il solo motore immobile, che lo ha riportato, dopo quattro lunghi anni di peregrinazioni, a casa, a piedi dall’Africa. 

Non si risparmiano, i neodiplomati eppur grintosi e talentuosi giovanissimi attori: Luigi Aquilino, Edoardo Barbone, Denise Brambillasca, Gaia Carmagnani, Eugenio Fea, Ilaria Longo, Simone Previdi, Alessandro Savarese, Valentina Sichetti, Irene Urciuoli e Daniele Vagnozzi. Certo aiutati da una cornice, che li pone in situazione (efficacicissima, la scena iniziale ambientata fra le mura della casa borghese, dove l’asfissia etico-relazionale è efficacemente resta in una costrizione degli attori a occupare una porzione di palco talmente angusta, da essere spesso costretti a sovrapporsi gli ni agli altri, per apparire in scena), non lesinano passione, humor, capacità di caratterizzazione, vèrve e, in fondo, anche tanta autoironia, nell’interpretare questi personaggi-fantoccio, efficace stigma e monito di quel che, ai loro occhi di ventenni, potrà forse sembrare una società sclerotizzata dalla convenzione.

Quindi, in ambo i casi, un Brecht profondamente umano. In barba allo straniamento, alle didascalie oggettivanti, alle canzoni il cui scopo era quello di non empatizzare, evitando di spostare il focus dalla denuncia al pathos, sembra che oggi Brecht abbia ancora qualcosa da dire: perché se la luna rossa – di shakesperiana memoria – rischia di far impazzire gli uomini, quando si avvicina troppo alla terra, non tutto è perduto; anche se, forse, è in una dimensione più umana ed intimistica che non politica, ideologica o collettivistica che si può ancora cercare una via di senso. A quel che pare.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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