Uno Jodorowsky ben fatto nella messa in scena di Fabio Cherstich

È rimasta in scena dal 10 al 29 ottorbre 2017, “Opera Panica” di Alejandro Jodorowsky, che Fabio Cherstich ha diretto al Teatro Franco Parenti di Milano. Un progetto lì nel cassetto per 16 anni e che, finalmente, il regista trova l’occasione per realizzare.

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Perché non è facile affrontare Jodorowsky e il suo immaginario strabordante, bulimico e visionario, ma non solo. Scrittore, fumettista, saggista, drammaturgo, regista teatrale, cineasta, studioso dei tarocchi, compositore e poeta cileno naturalizzato francese, nelle sue intenzioni c’è una vocazione panica nell’accezione greca del termine. La sua psicomagia, infatti, è totalizzante, inclusiva e incline al superamento di ogni dualismo. Da un lato, la razionalità dominante, per alcuni persistente cascame del Secolo dei Lumi – le sue radici affondano nella misura apollinea, nell’Uno parmenideo o in quel Logos, che, sia che lo s’intenda come atto creatore ex nihilo, che come semplice principio ordinatore di un caos pre esistente, dice di un insopprimibile bisogno dell’essere umano di dare forma, senso, ordine e costrutto alle cose –, dall’altro, il riaffiorare, mai davvero sopito, di quel dionisiaco, che non ha smesso di serpeggiare, attraverso i secoli, fra le pieghe della cultura ufficiale.
A tentarne una sintesi inverante – quasi un
superamento, nel senso in cui Hegel lo avrebbe inteso -, Jodorowsky elabora la valenza transazionale dell’atto psicomagico: non un oscuro rituale apotropaico – magico e subìto -, ma l’individuazione di un gesto simbolico, intenzionale e capace di mettere in moto le energie positive e risolutive dello stesso soggetto richiedente.

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Ed è gravido di tutto ciò, che giunge, questo cabaret tragico – come recita il sottotitolo – nelle mani di Cherstich. Mescolando la maestria di attori dalle corde lunghe – dall’istrionico, al surreale, dal grottesco, al comico al (melo)drammatico – con le note esilaranti e spiazzanti del duo chiamato a intervallare scene talvolta davvero fulminee e fulminanti, come nel mini monologo “Una storia” – “Ti dirò una storia … una volta … una volta … una volta così piccola … così piccolo … che non c’era tempo. Allora non c’è storia! Grazie” -, il regista imbastisce un atto unico di un paio d’ore, che scivolano via come la pattinata del rollerblader di una delle 26 micro pièce. I simboli ci sono: tutti e fin dall’inizio. A partire dall’enorme lente deformante al di là della quale attacca il Prologo – o, prima ancora, dalla ballerina in tutù rosso diabolico, che accoglie il pubblico in sala, alternativamente sgranandoci un ghigno afono, ma ostentato o puntandoci la pistola contro con un piglio, che non lascia nulla all’immaginazione -, via via i quadri si scompongono e ricompongolo con la fluidità a-teoretica del sogno o del flusso di coscienza. Non è, infatti, l’atto onirico – tappa mediale fra l‘atto poetico e quello teatrale, prima, e l‘atto magico e psicomagico, dopo – il momento centrale dell’omonimo scritto del poliedrico creatore dell’ atto psicomagico? E, così il regista s’incentra su un dis-ordine visionario e solo apparentemente senza senso, in cui sono proprio ritmo, fluidità e vivacità – verrebbe da dire vividezza – a non permettere alla platea di appoggiarsi, neppure per un istante, sullo schienale comodo di quella zona di conforto, in cui si accoccola tutto ciò che sappiamo e che ci dà sicurezza. Vestiti in bianco e nero, per lo più – ma poi pronti a guizzar dentro ad abiti di scena ben disegnati, a seconda delle circostanze -, i quattro attori-personaggi sembrerebbero del tutto intercambiabili nell’asettico non-luogo dal candore abbagliante;  eppure gl’impeccabili Valentina Picello, Loris Fabiani, Matthieu Pastore e Francesco Sferrazza Papa – ognuno una cifra attorale, come riescono a mostrarci ancor meglio negli assoli o nei pàs-a-deux – sanno far confluire la loro versatilità nel gioco demiurgico di Cherstich; che non racconta, ma evoca, non rappresenta, ma suggerisce e lo fa da dietro a lenti deformanti di demiurgica, ma maieutica diavoleria – che siano quella con cui si apre lo spettacolo o la telecamera del social o del sempiterno reality, poco conta; e non conta nemmeno se siano quella del paradosso dei rapporti sociali, dell’ossimoro di quelli affettivo-relazionali o dell’inattualità nietzscheana di un oltre-uomo tanto agognato, quanto forse davvero ancora troppo umano per poter diventare a sé attuale e contemporaneo.

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Gli sketch si succedono fulminei senza per questo mancare di andare a segno nell’affondo finale: propongono e ripropongono personaggi o loro varianti – a “I due pessimisti” fanno da eco “I due Ottimisti”, che segue a “L’Ottimista e il Pessimista”, ad esempio; e l’episodio della piscina ricompare, sia pur con differenti esisti e suggestioni, anche alla fine -, intervallati da rapsodici stacchi di sapore brechtiano – questo, del resto, il senso del cabaret (tragico) del sottotitolo – a cura del coloratissimo duo kitsch-pop Duperdu, ovvero Marta Maria Marangoni (la ballerina in rosso, che aveva accolto il pubblico, all’inizio, fra l’altro) e Fabio Wolf (autore ed esecutore delle canzoncine, che strimpella sul suo improbabile pianofortino verticale versione giocattolo). Se Cherstich mette in scena la tappa onirica – “L’atto onirico consiste nel vivere i sogni in uno stato di veglia per capirne la portata e i messaggi, evitando tuttavia l’interpretazione classica; così facendo il sogno si trasforma presto in sogno lucido, quindi consapevole, perché è tramite questa consapevolezza che possiamo lavorare sul suo contenuto”, leggiamo -, sono proprio questi due, con la loro dichiarata diversità – fin da costumi, registro e prossemica – a incarnare il coro e, quindi, per certi aspetti, a fungere da elemento di transfert col pubblico. Forse solo così si può transitare verso la magia di riuscire ad accedere direttamente all’inconscio – o, quanto meno, di ad una modalità/dimensione meta razionale.

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Così, pur non sapendo quali fossero le esigenze o le intenzioni del regista, quel che salta all’occhio sono la cura, l”attenzione, l’alto grado d’inventiva, la padronanza dei codici e il loro uso professionale – suoi, ma non meno degli attori e del duo -, che fanno, di questa “Opera Panica” non solo un prodotto “godibile”, ma “ben fatto”. E chissà che questa capacità di uscire da teatro, portandosi dentro queste e altre riflessioni, non sia, a suo modo, un atto psicomagico.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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