Aldo Morto e il cubo di Rubik

Spettacolo Vincitore del Premio Rete Critica 2012 e Finalista Premio Ubu 2012 “Migliore Novità Italiana (o Ricerca Drammaturgica)”, “Aldo Morto” – di e con Daniele Timpano – è approdato al Teatro Elfo Puccini di Milano, dal 24 febbraio al 02 marzo. Aveva fatto a lungo parlare di sé anche per la provocatoria spettacolarizzazione dell’ autoreclusione nel romano Teatro dell’Orologio dal 16 marzo all’8 maggio scorsi.

DANIELE TIMPANO / ALDO MORTO

E’ un testo difficile, da collocare: un po’ provocazione, un po’ ricostruzione sociologica, istrionica e giornalistica; ma anche satira, invettiva: poesia… Con felice immagine Enrico Pittaluga, un giovane attore, l’ha definito ‘come un cubo di Rubik’. E, in effetti, è davvero azzeccato. Come in un cubo di Rubik, infatti, assistiamo a continue evoluzioni, scomposizioni, cambi di colore, umore, intenzioni; Come con un cubo di Rubik, soprattutto, ci affanniamo – meglio, è Timpano a farlo per noi: generosamente, per tutto il tempo… – per cercar di ricostruirne la verità; ma – come per il cubo di Rubik – i conti non tornano mai, la messa a posto di alcuni dettagli sembra – inevitabilmente e, in questo senso, con portata tragica – sfuocarne e farne saltare altri, in un perenne inseguimento di senso, che sappiamo inutile come i supplizi titanici a cui vanamente venivano sottoposti i giganti. Neppure questa suggestione, del resto, è casuale: è lo stesso autore, infatti, che, con visionaria inventività scenica, si trasforma in un Renato Curcio il Carbonaro, reso attraverso le sue terga e con una maschera di Mazinga Z sulla nuca. Improvvisa un delirante proclama – l’onnipotenza è lì: giusto dietro l’angolo… – sulla singolare sinistra congiuntura insita nel 23 settembre: giorno di nascita dell’ora editore ed intellettuale – allora teorico delle BR –, ma anche natale di rinascita – Re-nato, non a caso, il nome di Curcio, sottolinea lo stesso Timpano – di quel Dioniso, dio del vino – certo -, ma anche bambino dilaniato e divorato guarda caso proprio dai Titani. E’ dalle sue ceneri che risorge; anzi: dal suo stesso cuore. Così scompatta, questa faccia del cubo di Rubik: chi è, quello che risorge dal proprio cuore? Un uomo nuovo – “Non mi sono mai pentito…” – o la comoda evoluzione di chi, cambiate le condizioni entro cui agire, s’inventa una nuova pelle?

Procede spesso, così, questo lavoro scomodo, duro, sferzante e a scatti. E la cosa è resa più sgradevole – nel voluto intento registico drammaturgico, intendo – proprio dal fatto che Timpano sembra tirarsene fuori. “Aldo è morto senza il mio conforto. – dice – Era il 9 maggio del 1978. Non avevo ancora 4 anni. Quando Moro è morto non me ne sono accorto”. Sembra la cantilena di un bambino: ed è proprio questo, l’éscamotage narrativo assunto per poter dire ingenuamente… impunemente. Per un lungo tratto, infatti, trascolora nel figlio di Moro, che ricorda gli aspetti teneri e domestici del padre; ma in un costante dissociato, per cui puntualmente ci spiazza, riportandoci a quel Daniele, che invece non potrebbe essere qui a raccontarcelo, essendo nato solo parecchi anni dopo. Dissimula, Timpano; in qualche modo volutamente bara. Già perché non è certo a digiuno di fatti e contro fatti, il signor Timpano; non lo è rispetto alla questione rapimento Moro – puntuali le considerazioni sulle conseguenze fisiche che le presunte condizioni di prigionia avrebbero dovuto infliggergli: ma che non son state riscontrate dall’autopsia – , come non lo è neppure rispetto all’intero Sitz-im-Leben socio politico ideologico entro cui la vicenda s’inscrive. Parte da quella, sì, ma per allargare in un discorso dissacratorio ed accusatorio, che se affonda i suoi strali nella politica di allora, lo fa per arrivare all’ora. E riesce a farlo con una tenuta scenica lunghissima – sbeffeggia, il pubblico, quando lo vede stanco: cosa si pensavano? questa è una tragedia! nessuna meraviglia, allora, che lo spettacolo sia lungo e pesante… -, performando in modo generoso e sorprendente, da vero one man show, che sapientemente gioca sia su questo stesso clichet – accattivante la gag della giacca infilata e sfilata, in base alle idee complottistiche, da cui si fa interrompere – sia con i pochi oggetti scenici, da cui si lascia supportare. La luce, prima di tutto, scarlatta, ad esempio, nella scena-ricostruzione della sparatoria del rapimento: in sottofondo una chiassosa “Viva la pappa col pomodoro”, a suggerire immagini splash; in altri momenti diventa un giallo occhio di bue, puntato sulla rivoluzione maoista, ma anche sulla foto-icona di Moro – un quotidiano in mano a dar prova della fino a lì sua esistenza in vita e, alle spalle, la stella a 5 punte, simbolo delle BR -, nell’ingiallito ritaglio di un giornale di quegli anni; e, ancora, fari – raso terra ed incrociati – ad illuminare la scena della strage o a giocare con la macchinina telecomandata, riproposizione ludico-surreale della Renault 4, in cui venne rinvenuto il cadavere dello statista. E poi la seggiolina: piccola, com’era Timpano in quegli anni, ma che ora non lo contiene più; né si contiene, infatti, la sua rabbia umana, né l’indignazione ideologica, nonostante il modo spesso faceto e dissimulatore di porgerla.
http://www.youtube.com/watch?v=BaWG6hTPDko

Potrebbe venire in mente il teatro civile di Paolini: ma gli manca quell’asciutta serietà; altri ci hanno visto un Celestini, anche per quel suo dire volutamente frettoloso e sdrucciolo. Lui ha strizzato l’occhio al falsetto di Carmelo Bene, in chiosa. Di fatto: quel che resta è il racconto pungente e smozzicato di un diavoletto che – giocando al gioco socratico-pirandelliano del “Non so…”, “Non c’ero…” – si spinge a fare nomi e cognomi e a lanciare arguti j’accuse in cui ha l’umiltà d’includere pure se stesso.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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