Industria Indipendente fa il bis a Tramedautore Festival

Giovedì 21 e venerdì 22 settembre 2017, fra gli spettacoli di Tramedautore Festival anche Industria indipendente: dopo il performer svedese Iggy Lond Malborg e il collettivo olandese Wunderbaum, infatti, il festival milanese ha dedicato una due giorni anche all’emergente compagnia romana, che sarà al Roma Europa Festival il 3 e 4 ottobre.

Lo aveva detto, un paio di sere fa, Benedetto Sicca, da quest’edizione Direttore Artistico di Tramedautore, presentando il primo dei due spettacoli del progetto artistico di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri; fra l’altro aveva detto che una delle cifre della pur giovane compagnia romana è la capacità di adottare registri completamente diversi. E così, nel giro di due sole sere, Industria Indipendente ci ha sbalorditi prima con un gancio allo stomaco come “I ragazzi del cavalcavia”, forte, duro, spiazzante per la capacità di restituire la desolazione cognitiva e socio culturale dalla quale soltanto, ci piace sperare, possono essere generati atti tanto insensati quanto devastanti, e, poi, con “Lucifer”, di tutt’altro packaging, ma, a ben raschiare, indugiante attorno a tematiche non così dissimili.

"I ragazzi del cavalcavia"
“I ragazzi del cavalcavia”

“I ragazzi del cavalcavia” è uno spettacolo fatto per quadri – non diversamente, si vedrà, per altri versi anche “Lucifer” -; ripercorre la cronologia dei fatti di cronaca, che, dal 24 al 26 dicembre 1996, sarebbero esplosi nell’insensato, cieco, quasi fortuito omicidio di una coppia di giovani sposi, in viaggio verso la felicità. E’ la desolazione socio culturale, quel che colpisce, la mancanza di senso, progettualità, empatia, moralità. E’ l’arendtiana banalità del male, nella restituzione di un côté desolante su un fronte più propiramente legato alla consapevolezza del sé e della responsabile progettazione di un proprio disegno di vita, che non su un versante socio economico (i quattro fratelli F, infatti, e lo zio Tex, pur appartenenti a un ambiente certo non benestante, non sembrano mancare di quell’agio, che consenta loro lo sballo in discoteca, le trasferte allo stadio al seguito della squadra del cuore o quei gadget tecnologici, che, in quegli anni, iniziavano a diventare status symbol irrinunciabili, livellando le classi sociali nell’indifferenziato magma del cosumatore). E, tutto questo, lo restituisce bene la scrittura: scarna, scurrile, quasi basica in quell’ininterrotto chiacchiericcio tra i fratelli, ombelicalmente legati solo gli uni agli altri, in un isolamento sociale, che diventa vincolo esclusivo, viscerale e quasi incestuoso nel suo osceno delirio. Come un branco di lupi. Questo, non a caso, il senso di quella educazione sentimentale, chiamiamola così, con cui, fin dalla prima scena, i tre fratelli maggiori svezzano l’ultimo – da cucciolo a maschio –: attraverso la rudezza della fatica fisica, dei muscoli, del fetore corporeo e di un rapporto uomo-donna, che, se anche passa attraverso alla poesia, è solo per puntare dritto al soddisfacimento dell’orgoglio del perpetuare la specie. E tutto il mondo fuori: un mondo visto come altro, antitetico, nemico, in un simil delirio paranoide; un mondo da invidiare a da conquistare; un mondo contro cui ringhiare con risentimento e poi, finalmente, da distruggere, con furia liberatoria, come in un mega video gioco impazzito, di cui quasi non si sanno più distinguere i confini con la realtà. In scena cinque attori, che non sbagliano un colpo: Alberto Alemanno (zio Tex), Franco La Mantia (Ruvido), Maziar Firouzi (Maschio), Daniele Pilli (Tacco) e Woody Neri (Rock), a interpretatre personaggi-fantocci, caricaturali e grotteschi come quegli incubi, che ci dormono accanto e di cui facciamo finta di non accorgerci: per non essere svegliati di soprassalto e riportati, bruscamente, alla realtà.

"Lucifer"
“Lucifer”

Anche il protagonista di “Lucifer”, PierGiuseppe Di Tanno, offre una performance ad alto rendimento e senza una sbavatura. Generoso nel darsi, sì, ma anche capace – sia nel gioco fisico, che nel virtuosismo vocale -, per oltre un’ora abita uno spazio bianco, in cui inscena gli irriverenti dolori di un giovane diavolo. Dalla caduta – il lapsus, di cui ci racconta, ricorda invece la cacciata dei progenitori, non fosse che lui, Lucifero, è solo; e, così, non può che perpetrarlo, sia pure nella distanza esclusiva dell’abbandono, il suo rapporto dialettico di emulazione/uccisione del Padre – alla ricerca di una propria identità: un viaggio perseguito con quel piglio irriverente, provocatorio, beffardo, ma intimamente disperatissimo, che è precipuo di ogni adolescente, di cui non a caso calza le scarpe di marca e indossa i pantaloncini comodi di acetato e il cappellino con la visiera, rigorosamente rosso inferno. Gioca a fare dio con la sola materia prima che gli sia data: delle uova – probabilmente di quelle che comunque non genererebbero nulla -, trattandole come se fossero esseri viventi, senzienti e in grado d’interagire. Con loro replica il “Padre”: s’intenziona loro pedagogicamente, sì, e amorevolmente, ma per poi puntualmente travolgerli nella sua ira distruttiva. E’ lui, il sommo artefice, che solve et coagula – come nella migliore delle tradizioni alchemiche dell’autogenerazione -, ma per poi, come quel capriccioso e triste dio-mensura che è l’uomo contemporaneo, ritrovarsi solo. E lui è anche lo zio Tom, il Grande Fratello, il mito di un’America, che non ha mai smesso di essere idealista, inclusiva e politically correct anche quando gioca a fare il contrario; quell’America, capace di confondersi in una babele di lingue e di credo, teologie, teosofie new age, religioni, filosofie, politiche o ideologie, ma che, alla fine, resta legata ai suoi ideali d’inclusione e accettazione, ai suoi sproni dello: “Yes, you can” o del “Go, Lucifer, go!”. Ergo?
Forse un po’ un laboriosissimo zero, questo “Lucifer”, in cui moltiplicando le lingue, le interazioni artistiche, le citazioni anche alte ed un certo gusto intellettualistico e iper testuale, pur creando suggestioni spiazzanti, ma poi  di certo non inedite nel panorama performativo, di fatto si torna a dire dell’assurda fragilità dell’uomo, del suo sgomento e del suo essere a-moralmente sperso, come un povero diavolo cacciato dal paradiso e che ora si vendica lanciando sassi dal cavalcavia della propria rabbiosa frustrazione. Forse solo una questione di gusto – e, personalmente, a me è arrivata di più la dirompenza del fendente di una parola che risuona nel e per la sua desolazione, che la moltiplicazione delle sollecitazioni sofisticato-fricchettone, che sembrano più preoccupate di ostentare, che di essere – al netto di lavori, entrambi, di ottima qualità e fattura.

Francesca Romana Lino

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