L’intento dissacratorio di Matanicola e Fattoria Vittadini

All’ Atir Ringhiera dal 13 al 15 dicembre “To this purpose only” di Matanicola – ovvero il duo formato dal performer israeliano Matan Zamir e dall’italiano Nicola Mascia – per e con Fattoria Vittadini, presenta uno spaccato di quella che sembrerebbe essere l’immagine dell’Italia all’estero.

photo by Ilaria Costanzo
photo by Ilaria Costanzo

Si articola in un trittico: una prima scena di corpi nudi, che giocano a plasmarsi in un continuum simil scultoreo – sembra d’indovinare la Venere di Milo, ma anche Amore e Psiche, oltre a certi gruppi scultori più drammatici e corali quali quello del Laoconte; e poi ancora la trasposizione in tridimensionale della Danza di Matisse o dell’Albero della Vita di Klimt -, alludendo al patrimonio artistico per cui l’Italia è apprezzata in tutto il mondo; una seconda che, al contrario, stigmatizza le non eccellenze, che il nostro Paese esporta – con riferimento non tanto alla mafia o fenomeni analoghi, quanto a quel kitsch, che fa tanto ‘biglietto da visita’ quanto ‘luogo comune’, probabilmente -; ed un ultimo quadro, che indaga il funzionamento di quello ‘Stato nello Stato’ – e con portata, per di più, trasversale – che è la Chiesa.

Ma vediamo meglio. La prima sequenza subito ci mette di fronte al fatto che i performers sono bravi nello scolpire le sequenze scultore, rispettando ritmi e partitura in un continuum organico, fluido e a tratti sorprendente. Entrano in scena – tre per lato – i sei danzatori e si schierano con i loro indumenti essenziali formanti il tricolore; e poi si spogliano, in un gioco di sfasamenti ben studiati, avendo cura di riporre i loro pochi panni vicini fra loro per tonalità cromatica: quel che se ne ottiene è un’alternanza visiva fra i corpi nudi – una sorta di ritorno alle origini – e quegli stracci di bandiera calata, che non può non far arrivare forte e chiaro il suo messaggio. E poi corrono alla ribalta, tutti assieme: guardano, spaesati, verso un non meglio identificato punto all’orizzonte – il futuro, forse: quanto mai incerto, nei loro sguardi -, si inchinano – come ad accogliere un ipotetico applauso/assunzione d’incarico – ed inizia il gioco della drammatizzazione scultorea, accompagnata dal sottofondo sonoro di un vento, che si fa sempre più impetuoso, fino a confonderli, scompigliarli, sparpagliarli – la zattera della Medusa di Géricault – e che vede il suo acme in una scena ‘a coltello’ – altro ‘topos’ di una certa ‘italianità’ nel mondo. Questo segna il passaggio al quadro successivo: quasi che fosse proprio quel sangue – che scorre dal corpo ferito, ma che imbratta anche il feritore: in un infido abbraccio fratricida – a fungere da principio di realtà. E, sulle note gridate del felliniano “Amarcord”, si passa alla scena successiva.

Il secondo quadro, al contrario, oppone, alle atmosfere rarefatte ed edeniche, un turbinio di luoghi comuni: dalla pasta Barilla della desperate hausewife nostrana al macina-pepe in legno, dal caffé che sparge il suo aroma nella sala, al bottiglione di spumante con cui il bamboccione palestrato si fa addirittura la doccia; quel che si vuol colpire, qui, soprattutto è quel clichet biecamente consumista ed incapace di reinventarsi, che fa della donna tradizionale – la contadina che procedeva fiera, nel suo vestito tradizionale, e con la gerla sul capo -, una ‘Nostra Signora’ del Consumismo, con tanto di ex voto – i vari sacchetti di negozi griffati – e popolo adorante; specie quando, al posto del sacro cuore, stringe in mano il pallone da calcio… E tutto è molto colorato, concitato, chiassoso: grottesca sembra essere l’immagine restituita all’oltralpe. Ed un eccesso di fisicità/sensualità, come la scena centrale dell’approccio/bacio lesbico, ad esempio, lasciano intendere.

E siamo all’ultima scena: la più criptica. Perché, mentre il palco viene saturato da un persistente fumo denso, dal nulla nel buio compaiono tre preti in abito talare, ad intrattenere una lunga danza penitente/forgiante-il-loro-essere; e poi entrano in scena tre clown, tacco a spillo e gambe nude, a significar le ‘lucciole’ – come l’uso delle torce negli slip inequivocabilmente dice -: e li stuzzicano e li fanno ‘sollevare’… li dominano: fino allo sfregio di appiccicare gli assorbenti usati sulle loro bocche a mo’ d’impietoso asfittico sorriso. Poi ne trascinano via con sé uno, lasciando agli altri due l’onere di riprendere la danza, che presto si trasforma in un inatteso passo a deux del più erotica dei balli: il tango.

Certo, c’è denuncia, in tutto questo: chiara, l’allusione allo scandalo dell’omosessualità nella Chiesa, – e, forse, un accenno alla pedofilia, in quelle maschere clownesche deformate -; e , in generale, all’ ancora irrisolta questione della sessualità – millenario tabù ecclesiale. Certo c’è da riconoscere l’ encomiabile lavoro degli afasici performer, che l’affidano alla sola espressività dei loro corpi, l’intera gamma delle emozioni di quest’ Italietta ancora in bilico fra un passato glorioso ed un futuro incerto; e che – frattanto… – sembra consolarsi, abbuffandosi di ‘cose’ e stordendosi di emozioni amplificate e banali, quanto la passione per il calcio o per il caffé. Certo, felice è l’intuizione di voler fare, di questa, un’esperienza in 4D – includendo spesso quello olfattivo, fra gli stimoli sensoriali -, così funzionale alla descrizione di un Paese, che sembra ancora galleggiare nella visceralità delle proprie passioni/pulsioni,

Ma poi resta un po’ l’impressione che davvero ‘l’intento sia solo questo’: e che non si abbia assistito a molto più che ad una vetrina/carillon – per quanto a tratti dark –, dai meccanismi perfomativi e dalle suggestioni coreografiche notevoli,  certo, ma che stenta a squarciare il velo della orizzontalità descrittiva.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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