Il misantropo dei Marcido fra macchinazioni sceniche e significati reconditi

E’ senz’altro un allestimento da vedere,  “Il Misantropo” di Molière reinventato dai Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa in base ai canoni e cifra stilistica, che son loro propri. E, così, quel che ci appare subito di fronte è lo iato fra l’aderenza al testo, da un lato, e, dall’altro, la meravigliosa irruenza delle trovate scenografiche, nonché la fantastica creatività nel giocare tre siparietti canzone a dar nerbo e propria impronta specifica alla drammaturgia.

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Anzitutto la macchina scenica. Un’enorme marchingegno, una sorta di lanterna magica con disegnate sopra le immaginifiche sagome del mobilio di un ipotetico salotto dell’epoca: pendolo, specchiera, divanetto sofà, angoliera, ribaltina e tutti quei capi d’arredo che si vedono ancora – in versione modernariato, probabilmente – solo nelle case delle persone più agés. E qui ne scorgiamo le silhouettes – nero su bianco – come schizzate a carboncino e tracciate quasi a definire subito una dichiarazione d’intenti: perché non si può non notare, in quei tratti rococò, la leziosità delle gambe delle seggiole, che terminano a zampa di leone, né la bizzosità dei braccioli, che all’improvviso si risolvono in inaspettati bisticci di bisbetiche manine. E poi la macchina prende vita: come una giostra mossa a braccio dagli stessi Marcido, che, in candidamente versatili tute da ‘lavoro in corso’, compaiono in scena incappucciati – chissà: forse moderni assaltatori della diligenza di un così blindato testo classico -, si svelano, imbracciano le loro chitarre color china– torna, qui, la bi cromia bianco e nero – ed iniziano ad intonare l’improbabile canzone-sipario: una sorta di preambolo/compendio per raccontare – di certo alla loro maniera – quale sarà il plot della vicenda. Alla loro maniera, già perché per castigare il costume della convenzione/ipocrisia sociale, non indietreggiano dallo stilettare espressioni come “Il nulla nobiliare produce Letalgas”, né a palesare la loro funzione di coro, in quest’attacco, cantando: “Tentiamo… proviamo.. stiriamo la logica.. l’Utile… sgombriamo il futile… coroniam per l’inutile… facciamo festa alla dea Ipocrisia…”, dov’è quasi pleonastico ricordare che da ‘upò-crisìa’ deriva quell’ ‘upò-critès’, che è anche l’attore, quasi a dire che, quella, in fondo, sarà la festa fatta al Teatro in uno dei suoi moderni padri fondatori.

marcido2E comincia la trama: la storia di Alceste, irreprensibile castigatore morale all’interno di una società fin troppo avvezza alla moina, che cadrà, lui stesso, vittima della più ‘smanceriosa’ delle femmine, che, alla fine, deludendolo, lo indurrà a ritirarsi da cotanta affettata finzione sociale. Nella meraviglia generale le stesse sagome dei mobili – ingigantite! -, prendono vita, si ribaltano e rivelano le coloratissime strutture, scivolando entro le quali gli anonimi coreuti si trasformano nelle figurine settecentesche di un’oziosa disputa da salotto. L’unico a non rientrare in questa logica – ovviamente – è Alceste/Marco Isidori – fondatore storico della compagnia torinese attiva già dal 1984, nonché regista -, il Misantropo, appunto, denotato anche visivamente con altri marcatori: completo scuro – quasi epifenomeno del suo animo austero e dolente, al punto da essere in molti passaggi sovrascritto ad un Luigi Tenco in versione pop – e spesso collocato in una struttura a dominare – bacchettandolo – un enorme cerchio come nel frustrante intento di ottenerne la quadratura. Ed è un gioco di ossimori: l’intransigenza struggente della sua verità opposta alla leziosità leggera e zuccherosa di quel mondo,  il suo ‘nero’ ai loro colori vividi – i pastelli dell’amata Célimène/Virginia Mossi o dell’infine amico Filinto/Paolo Orrico o, ancora, delle due sagome rosa/azzurro di Citandro/Acaste nella divertita animazione di Maria Luisa Abate come, invece, la naunces più accese di un Oronte/Stefano Re, Eliante/Lauretta Dal Cin, Arsinoè/Valentina Battistone o Basque/Dubois/Giacomo Simoni. Fa tanto bagarre, tutto quel volteggiare di sagome, figure, pensieri, costumi, colori, eventi, pettegolezzi e acredini spesso mal celate – illuminante il battibecco fra donne di Arsinoé-Fiordivirtù e la bella, civettuola ed invidiata prémerère femme Célimène -: e non si può non restare sopraffatti dalla potenza immaginifica e dall’inventiva dei Marcido, in tutto questo. E, però, poi forse davvero il troppo storpia, come si dice; e, così, tutta questo marchingegno, ma – soprattutto – questi toni troppo serrati e costantemente mantenuti al di sopra delle righe, se in alcuni momenti catturano, divertono, affascinano ed anche ci fanno scivolare in un compiaciuto consenso, alla lunga un po’ stancano, come una pietanza pur ricercata, ma messa in tavola tutti i santi giorni. Così come le canzoni: divertenti – spassosissima la “Canzone della Riproduzione Generale”, che inchioda tutti, i più insospettabili compresi, alla servitù del “pertugio… senza indugio”, così come l’ultima, la “Canzone del Tira e del Molla”, che provocatoriamente argomenta contro l’oggettività e a vantaggio di una pubblicità-rete-per-divinità… “umane, ahi troppo umane”, verrebbe da chiosare.

Ad ogni modo: senz’altro uno spettacolo da vedere per la capacità creativa, immaginifica, fantastica, per l’arguzia e la capacitò di stupire pur mettendo in scena un classico, ma rivisitato e rieducato in un bolo di preziosa digeribilità; e, però, magari una maggior intelligibilità dei testi ed un più compiacente disponibilità nel non sostenere un ritmo sempre così serrato, forse, ne avrebbero consentito una fruizione ancora più completa.

8 > 13 aprile
da martedì a sabato ore 20.45 – dom. ore 16
all’ OUT OFF – Milano

MISANTROPO
Misantropo! Molière! Marcido!

in coproduzione con
Fondazione del Teatro Stabile di Torino

 

 

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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