Rossy De Palma al Piccolo: recital surreale per l’attrice feticcio di Almodovar

E’ senz’altro uno spettacolo surrealista, questa “Resilienza d’amore”, recital di e con Rossy De Palma, che ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano martedì 17 marzo – in replica fino a domenica 22.
Surrealisti sono i temi trattati, che con generosità l’attrice porta in scena.

@virginia bettoja
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L’ amor fou, anzitutto, raccontatoci dalla sua voce calda e suadente a declinare canzoni e liriche catalane, vibranti di quella passione profonda e struggente, che chissà perché spesso acquista, ciò che proviene dalla caliente cultura d’España. E poi sogno e follia, certo amplificati nelle surrealiste immagini in bianco e nero proiettate a bella posta fra una scena e l’altra – per consentire al pubblico d’imbersi in quella grammatica forse oramai un tantinello desueta, ma che immediatamente cattura per la sua forte connotazione simbolica. E puntualmente, dopo ciascuno di questi stacchi – evidentemente di natura non meno tecnica, che poetica e drammaturgica –, eccola riapparire con una nuova diavoleria narrativa, ancora un’altra faccia e suggestione di quella liberazione da qualsiasi vincolo – sociale e non, convenzionale e non, moralistico e non -, altra cifra del movimento, che prese ufficialmente vita dal manifesto di André Breton. Correva l’anno 1924.
Ma al di là di questo – al di là delle numerose suggestioni e provocazioni mutuate da quell’immaginario -; al di là delle citazioni iconografiche o letterarie – dai ritratti di Dalì agli stralci di Lorca, ma anche Cocteau, solo per citarne alcuni -, il reale oggetto del contendere è la dimensione umana, con la quale gioca, l’attrice, senza riserve, né inutili divismi. – Una dimensione ‘umana’ proprio come la ‘voce’ del titolo della celeberrima pièce del suddetto drammaturgo francese, che risuona, ad un certo punto, in una registrazione d’epoca.

Un mix di intenzioni, scene e suggestioni. Dalla sequenza ipnotica della sistemazione di diverse paia di scarpe scintillanti e dal tacco vertiginoso – con tanto di equilibrismi, da parte dell’attrice, per indossarli, uno ad uno… per poi probabilmente capire che è ben altro, la femminilità, che non il traballante passo di una poco più che instabile bambolona – , fino al reiterato gioco del capriccioso “Mi piace… non mi piace” – la testa in una gabbietta per uccelli e lo sportello che si apre, a tempo, quasi tormentone meccanico di un  asettico cù-cù. E ancora: le scene con gli enormi ventagli di piume di struzzo – oggetti feticcio di un certo immaginario – ad inventarsi una realtà fatta sì dell’eco di seduzioni da café chantant, ma poi che diventano anche inaspettate ciglia di un corpo che si fa tutt’intero occhio, come nella più fedele tradizione surrealista – dai dettagli di certe foto o dipinti fino al provocatorio incipit di “Un chien andalou”, di Louis Buñel e Salvador Dalì, primo film dichiaratamente appartenente a questo filone.
Tagli di luce netti, ad incidere chirurgicamente il buio, che è quello di un’anima di nuovo disposta a giocare ancora un altro ruolo, declinandosi nelle mille sfaccettature della propria disarmante, ma mai vinta fragilità.

@virginia bettoja
@virginia bettoja

Ogni volta è come voltare una carta. Ed ecco che la nudità del palcoscenico vuoto, buio e ridondante di un silenzio, che rimbomba – come solo l’animo di una donna alla spasmodica ricerca di consensi riesce ad esserlo – magicamente si anima di una musica, anzitutto, il più delle volte. Indugia, si srotola, tintinna oppure ci avvolge per trascinarci via, a seconda delle suggestioni e degli intenti. Spesso duetta col ritmo dell’azione scenica – mai una vera e propria narrazione – e con la vorticosa o ripetitiva gestualità di questa femmina ammaliatrice, anzi tutto – anche se poi spesso vittima dei propri struggimenti abbandonici. Quasi che non bastasse, la potente macchina seduttiva giocata fra ammiccamenti espliciti e giocosa ironia non meno dichiarata. Quasi che a nulla servisse quel suo mostrarsi ostentatamente donna, nel sempiterno gioco di sottile conquista al ‘come tu mi vuoi’.
Quanto Almodovar, in fondo, ancora in tutto ciò. Quanta traballante fragilità ancora trapela da quell’icona pur così inaspettatamente interlocutoria e gioviale nel coinvolgere il suo pubblico.
Quasi che vita ed arte si confondessero. E quando il palcoscenico viene invaso da rotolanti cipolle – bianche, rosse, dorate… – sospinte in scena, da dietro le quinte, al suo passaggio – come non pensare che, mutatis mutandis, ai piedi delle dive di un tempo sarebbero state gettate, invece, purpuree rose rosse a stelo lungo… – ecco che torna in mente lo stralcio letto sul foglio di sala: “La mia vita è un atto di ribellione, animato dal desiderio di ‘decorticare’, di sapere cosa nasconde l’apparenza delle cose come se la vita fosse una cipolla, alla quale vai togliendo strati, per scoprire che alla fine non ci resta niente, solo l’umidità delle lacrime, che hai versato…”.
Ecco, in fondo un po’ questo: quell’ ugualmente dichiarato: “Alla fine mi sono sentita sola, unica della mia specie, come un anacronismo, un errore…”. Questo, in fondo, è lo struggimento, che ci prende e ci accompagna per tutto il tempo della rappresentazione – a prescindere se cogliamo o no le citazioni artistico-letterarie o se capiamo o non capiamo il senso delle parole recitate anche in spagnolo. E’ l’intonazione intimamente umana che risulta inequivocabile, nella mirabile modulazione interpretativa dell’attrice, cassa di risonanza ed espressione di un vissuto esistenziale, che ci accomuna tutti. E poi costumi importanti, che – come strati di cipolla -, l’ammantano, proteggono, svelano, incoronano: perché il gioco della seduzione non abbia fine.
Nonostante il procedere degli anni e di una natura che talvolta pare esser più noverca, che madre...
Illuminante la scena, in cui la De Palma si presenta – il  volto ricoperto da svariati strati di  ‘sudari’ l’uno sopra l’altro –: “Talvolta bisogna coprirsi per farsi guardare…”, dice, alludendo alla ferinità dei suoi occhi e alla particolarità dei suoi tratti somatici, che catturano l’interlocutore, distraendolo dal senso delle parole. Eppure è qui, la resilienza: sapersi rigenerare – nonostante tutto -, attraverso l’Arte.

Piccolo Teatro Grassi
dal 17 al  22 marzo 2015
Resilienza d’amore
Donne, Surrealismo e passione
Recital di Rossy de Palma
in collaborazione con
Instituto Cervantes

Francesca Romana Lino

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