Vita da Prometeo

Difficile definire cosa sia, questo “Intanto… sono qui. Interiorità di Prometeo”, che ha debuttato il 12 dicembre al Teatro Scala della Vita e che è rimasto  in replica fino al 14.

Il foglio di sala ci parla di ‘un vero e proprio musical per attore solo’: senza, però riuscire a illuminarci molto di più, non essendo, questo, un genere già codificato.

Quel che di fatto succede sul palco è una commistione di codici espressivi, in cui s’intersecano le movenze del teatro-danza – con una performatività dell’attore-solo davvero ragguardevole -, le proiezioni video – a cui è affidato l’incipit e poi il ruolo di ‘coro’/controcanto nei momenti topici – e canzoni pop-musical appositamente scritte in collaborazione col violinista barocco Maurizio Parma – qui, però, lontano dal genere della sua formazione – ed appositamente cantate in inglese – per ‘suggerire’ ed ‘evocare’, più che ‘svelare’…

Così si gioca su tre fronti, questo processo di presa di coscienza di sé da parte di Prometeo; oltre che sul ricorso ad una parola ridotta all’essenziale: scelta, centellinata, evocativa.

Incipit d’ispirazione ortodossa – pur rivisitata nella contemporaneità di un video dalle immagini pulite e patinate e capaci di farci ricalare in un’atmosfera modernamente mitica – e svolgimento, invece, in cui l’attore mostra il suo non riconoscersi in nessun antesignano: così dalle immagini proiettate – un non meglio connotato novello Narciso, sembrerebbe, che si china a specchiarsi, ma che poi s’invaghisce non tanto della propria immagine riflessa, quanto di quel dio-sole, che vede splendere alle proprie spalle… e che gli fa balenare l’idea di rubarlo, il sacro fuoco: sfidando il destino – passiamo al performer in carne ed ossa che, nella plasticità del suo fisico a metà fra statua greca e shaolin fluido e sinuoso, mima i passi dell’ inoculamento del dolore – efficace la rete sugli occhi ad esprimerne l’obnubilamento estraniante e che isola – e del conseguente avvelenamento, che ci rende tutti figurine falsate, timorosamente nascoste dietro ad una maschera-scudo o aggrappate ad un filo che ci tiene su, come recita la voce neutra fuori campo quasi fosse quella di un antropologo a dar lezione sull’essere umano in cattività (da se stesso). E’ l’irrompere del grido di paura – si delinea, improvviso all’orizzonte: come il lampo di Zeus… -, che sconquassa e lacera il protagonista fin nelle viscere più intime, ponendolo di fronte all’urgenza della propria assunzione di responsabilità.

Sublimare il dolore nell’azione, vincendo ogni resistenza, per ricollocarsi in quel cerchio – virtuoso – che è l’energia – vitale. Detta così, riecheggiano miriadi di suggestioni – da Schopenhauer ai maestri orientali; dalle teorie psicanalitiche sulla valenza terapeutica dell’arte all’homo mensura di Protagora: contraltare del lapsus adamitico… E questo, appunto, Alessandro Parrinello -attore ed ideatore – vuole che restino: allusioni, suggestioni, emozioni che consentano allo spettatore di restare aperto all’ascolto anche del proprio sé, perché non è del mito di Prometeo che si sta narrando, ma dell’universalizzazione del tipo prometeico, in nuce in ciascuno di noi.

Già ma cosa fa scattare quest’assunzione di responsabilità? Casa rende la misura del dolore così colma, da non poter tollerare neppure la benché minima delle aggiunte?

Cos’è stato capace di fargli svelare lo sguardo, rimuovendo la grata-benda dagli occhi e la manica d’acqua, liberandogli le dita per poter tastare – ergo: sperimentare – il mondo?

“Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura”, riecheggia 1 Giovanni 4,18: ed in effetti sembra essere lui – l’amore -, il grande assente. Vi allude in un paio di passaggi soltanto: quando, nella lirica “Nevicano foglie”, conclude auspicando labbra confidenti che si posino sulle sue, e quando l’amore verso cui si protrae con tutto lo sforzo spasmodico delle sue membra, resta comunque lì, simboleggiato da inermi bende a terra… La pulsione relazionale – con l’assunzione del rischio che ne consegue -, infatti,  sarà sviluppata solo nel terzo capitolo della trilogia: per ora è sembra sia solo l’acme della paura – panica! -, ad offrire a questo Prometeo Incatenato il giusto movente per iniziare a risalir la china.

Queste, le suggestioni ricevute dalla performance, secondo episodio di una  trilogia, dopo “Ecce. O della responsabilità” – quattro monologhi, in cui vengono portati in scena uomini-monadi, invischiati nella propria autoreferenzialità irrelata e che s’interrogano sul peso del destino – e prima di “Prometeo 2002”, che vedrà portati a frutto i risultati del processo di liberazione/ presa di coscienza con la conseguente acquisizione dell’assunzione del rischio relazionale.

Progetto ambizioso, non c’è che dire: che Parrinello coraggiosamente porta avanti, concedendosi anche ad un compito divulgativo delle intenzioni della propria drammaturgia; progetto che non avanza pretese intellettualistiche o pedagogiche, ma che pure rischia, a tratti, di doverlo essere, proprio per la natura stessa del materiale peformato. Certo: emozione, suggestione, evocazione sono tutte corde che sicuramente riesce ad intercettare con la sua fisicità plastica – fluida, a tratti, sincopata, in altri momenti: comunque espressione del perfect control, che rivela la sua formazione da ballerino –  sapientemente modulata; ma poi resta il dubbio che la cripticità sia ancora in tonalità dominante, nonostante l’assalto convergente dei diversi linguaggi: ridondanti, talvolta, nella sinergia dell’intento esplicativo, insufficienti, tal’ altra, a ché venga comunicato qualcosa di più che una vaga suggestione. Ciononostante lo spettacolo ha sicuramente un suo fascino, ma – più che tutto – riesce a offrire immagini, intenzioni ed un lavoro fisico di fino, che ci parlano di un artista da tener d’occhio.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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