Lanera strega e le sue performing-tales per una non buona notte

«Le favole non servono a spiegare ai bambini che i draghi esistono. Questo i bambini lo sanno già benissimo da soli. Le favole servono a spiegare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti», teorizzava Gilbert Keith Chesterton. Ecco, se questa è l’idea con cui abbiamo cercato di esorcizzare i mostri dei nostri incubi infantili indotti, l’ultimo lavoro di Licia Lanera ci invita a girar pagina e tornare a nasconderci sotto metaforiche coperte. Succede così, in “The Black’s Tales Tour”, ultima produzione di Fibre Parallele – testo, interpretazione e regia di Licia Lanera, sound design Tommaso Qzerty Danisi -, che il Teatro Franco Parenti di Milano propone in cartellone a cavallo di Halloween, dal 31 ottobre fino al 12 novembre 2017.

Licia-Lanera-1-foto-Luigi-Laselva

Eppure queste tales – favole –, del mondo di fate e orchi conservano poco: lontane dalla versione edulcorata del “…e vissero tutti felici e contenti”, affondano nelle origini horror dei racconti dei fratelli Grimm, sì, ma poi giocano pure a rimpiattino in un costante andirivieni con la realtà. È quella di Licia Lanera, o forse del suo personaggio-narratore, che, in un buio che più buio non si può, per i lunghi minuti iniziali ce la mette tutta per provare a terrorizzarci: sfodera un campionario di sospiri, rumori, lamenti da film horror, che le tenebre non fanno che amplificare, specie se, come qui, vengano protratte. Sfida interessante in un medium come quello teatrale che, per sua natura, invece, è al tempo stesso voyeristico ed esibizionista – nel quale, cioè, la vista è elemento irrinunciabile e il fatto stesso di precluderne l’uso mette a dura prova l’implicito patto fondativo.

Ma perché Licia vuol farci questo? Perché “sono tre anni che non dormo […] che dormo da sola, ma non dormo da sola – ci dice, con la voce roca e sinuosa dei nostri peggiori incubi, per poi concludere, degna strega, che, se soffre, non può soffrire che anche gli altri non soffrano – e voglio che stanotte non dorma neanche tu… e tu… e tu…”, in una ripetizione, ossessiva, che altera, stromba e deforma tutti i possibili interlocutori con l’evidente intento di terrorizzarci.

Inizia così a raccontarci una favola, la prima, quella di una “Cenerentola” made in Grimm-land, attraverso cui ci mostra la sua misura: le parole sono esattamente quelle della favola, ma tutta sua è la maestria – performativa -, nel raccontarcela. Un lavoro interessante e preciso, quello che Lanera fa sulla voce: strizzata in una tutina da valchiria dark – le manca solo la frustra, ma è egregiamente sublimata in quel microfono attraverso il quale sferra brucianti sferzate vocali -, complice anche il registro fiabesco, modula una vasta gamma di provocazioni acustiche. Dall’affabulatorio allo spaventoso, dal conciliante all’ironico, contraffà i tratti dei differenti personaggi, in un carosello farsesco e grottesco, che pare risparmiare soltanto lei, Licia/Cenerentola, in fine coronata da un the end, che oltre che happy, in più è well done, in quanto capace di ristabilire le sorti, senza paura di dover ossequiare un non meglio precisato buonismo residuale.

Ma non basta a scacciare gli in-cubi, che le dormono addosso.

Gli occhi fluorescenti del drago continuano a spiarla da sopra all’armadio e non c’è altro verso, per provare a commuoverlo, che di chiederglielo direttamente: “Per te – inizia – ho dato via la mia voce e rinunciato alla mia coda di sirena” e poi, quasi indicibile: “Ma tu rispondimi: sinceramente mi ami più di tutte le altre?” “Certo – è la voce di chi ancora ne ha una -, perché tu assomigli a una ragazza, che una volta mi ha salvato la vita. Non sei tu, ma le somigli…”: inizia così il grande equivoco, che porterà la Sirenetta a sciogliersi in schiuma, perché non tutte le fiabe hanno un lieto fine. Prosegue allo stesso modo – fra fumi da concerto pop, tagli di luce ad effetto e musiche e suoni concepiti apposta per stordirci e confonderci -, quella che si delinea sempre più come una performance. La narrazione si essenzializza – emblematico, l’esempio della favola di “Biancaneve”, liquidata in poche fulminee anafore -, non indugia più nel divertissement del gioco di ruoli e stili, ma si trasforma – ancor più in “Scarpette Rosse” – in una vertigine vorticosa, dal ritmo sempre più sconnesso, ossessivo e ossessionante come quelle scarpette fascinose – fatate o indemoniate: che differenza fa? -, che non c’è verso di togliersi di torno neppure dopo che il boia le abbia tranciato via i piedi, pur di liberarla.

Il tutto, in una scatola nera, di un nero lucido come quello degli stivali e del corpetto in pelle di Licia, che strizza l’occhio alla colata di pece con cui, al terzo giorno, finalmente, il Principe – “che era un po’… era un po’… un po’…”, aveva più volte ironizzato la Lanera – fece ricoprire il corridoio imboccato da Cenerentola per scappar via; ma vi rimase invischiata la scarpetta. Torna, il simbolo della scarpa: oggetto del desiderio – ma forse pure stigma di un consumismo sirena-e-giogo della donna/oggetto -, quasi a significare il mostro – questo sì – a due teste, che è la-paura-e-il-desiderio di autonomia ed emancipazione di questa donna moderna.

TBBT anteprima Piacenza 2

Impazzano, le note di quel “Rien de rien”, in cui, candida, Édith Piaf confessava: “[…] no, non rimpiango nulla…”, mentre lei prova a giocare con la ricerca di una sua identità. In “RETE” – chissà se allude alla trappola della Sirenetta o alle potenzialità del web… -, “TENERA” , bramosa di “TENERTI” – come in fondo, rivela, ad un improbabile Principe Azzurro, che se anche non c’è, se da tre anni dorme da sola e non dorme, chissà quanto somiglierebbe ai Principi-fantoccio di queste favole, qualora dovesse arrivare… Questi gli anagrammi, che ne svelano l’anima, dopo averla falsamente sorretta, piedistallo di quella dominatrice, vincitrice e vendicata, che forse in fondo non è. Perché se vero è che Nessuno si salva da solo – come recitava il titolo di un romanzo della Mazzantini -, è altrettanto vero che perfino Walt Disney lo ha capito e, già con Mulan, Pocahontas, Raperonzolo e, ancor più con “The Brave” o la stessa Anna di “Frozen”, rinuncia all’immagine della dolce inerme fanciulla in attesa del Principe Azzurro che venga a salvarla.

Dunque una performance-pop per far riflettere su intimissimi fantasmi e modelli sociologici in pubblica trasformazione; peccato, forse, che la parte performativa, complice anche l’interessante lavoro sull’uso della voce e del suono e gli spettacolari effetti visivi, un poco distolgano da questa riflessione, che, se arriva, forse lo fa più a livello subliminale.

Francesca Romana Lino

Articoli correlati

Condividi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Fatti di teatro - il podcast (ultimo episodio)

Vuoi ricevere "fattidinews" la newsletter mensile di fattiditeatro?

Lascia il tuo indirizzo email:

marzo, 2024

X