Se bastasse un “Pedigree” a far ordine nella “Babilonia” del contemporaneo…

Per soli tre giorni – dal 26 al 28 ottobre 2017 – a Milano, a MTM Teatro Leonardo“Pedigree” di Babilonia Teatri. In scena Enrico Castellani (autore e regista, oltre che fondatore della compagnia, insieme a Valeria Raimondi) a scandagliare uno di quei temi, al limitare fra paura e desiderio, che caratterizzano l’attualità.
Si parla di bambini in provetta e famiglie arcobaleno, di asettici donatori di sperma e di affettuosi legami con una genitorialità omologa, sì, ma solo apparentemente diversa. Questo, almeno, l’intento della serrata apologia pop, condotta, per 50 minuti, al ritmo di colonne sonore rock, che accendono il monocorde intenzionale del figlio/protagonista.

Inizia con tono espressamente ieratico: “Nei tempi antichi, quando desiderare valeva ancora qualcosa…” a cui fa da contro canto, a più riprese: “e, in quel tempo…”. Il ritmo è quello petulante del curato di campagna; l’accento, smaccatamente veneto, non fa che accentuarne la coloritura. L’impressione è che scartabelli fra le pagine ginnasiali dei suoi ricordi, da dove saltan fuori tutti i luoghi più comuni di una religiosità bigotta, variamente nobilitati dal mito dell’ermafrodito di platonica riminiscenza. Ma già attacca preti e istituzioni, perbenismi e ipocrisie, mentre siede su un trono rosso fiammante, mostro mitologico fra il retro di una Harley Davidson e lo scranno di Zeus. Sì, Zeus: proprio quello del mito, che, invidioso della perfetta felicità di quegli esseri primordiali ma paghi del loro amore totalizzante, li spaccò in due, condannandoli a ricercare la propria metà, che, in un mondo forse meno moralistico di quello giudaico-cristiano, non era affatto detto che dovesse essere per forza del sesso opposto. Questo, l’incipit, prima di affondare nella più prosaica delle realtà. Ci racconta del mondo garbato e sognante delle sue due mamme, Marta e Perla (versione new age, in fondo, dell’evangeliche Marta e Maria), unici angeli della sua infanzia normale – “Provate a chiudere gli occhi e dimenticare tutto…”, ci dice, accompagnandoci per mano a riconsiderare le cose attraverso lo sguardo trasparente del bambino, che non abbia avuto mai altra esperienza che quella -, da una parte; dall’altra, di quello becero di Dennis, compagnuccio delle elementari, che, per primo, con le sue parole schiette e dure – come solo sanno esserlo quelle del dialetto – gli fa avvertire tutta la drammatica portata della sua diversità.

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“Ma ti, perché ne l’ha miha, un papà?”, gli chiede, a bruciapelo, in un giorno d’estate, mentre erano alle prese con un problema di matematica; e se anche avrebbe voluto azzittirlo: “E ti, perché ha una mama sola?”
Desiste, perché lo avverte subito che non era una domanda, la sua; una sfida, piuttosto, un’accusa che l’intero paese e il perbenismo degli adulti gli gettava addosso per il tramite di quell’ingenuità crudele come solo sa esserlo quella dei bambini.

Così quei polli arrosto, oggetto del problema di matematica – ma, per altro verso, sigillo della virilità del padre che lui non aveva e che lo costringeva a sparigliare, quando anche lui e le sue due mamme provano a calarsi nel rituale del “mezzo pollo a testa” -, diventano un tormentone. Tutto sembra incagliarsi lì: fra quei conti che non tornano e la paura e il desiderio di capire, forse, e di riappropriarsi, in qualche modo, di quella figura lontana e mancante, contro cui ringhia come un qualsiasi adolescente, che non si senta guardato. Ha un bel dire che tutto va bene, abbuffandoci con la stucchevolezza delle diciotto sacher-torte con candeline, che le sue edulcorate mamme formato Walt Disney gli avevano preparato per festeggiare i compleanni, che lo separavano dalla maggiore età.
E, finalmente il giorno, in cui avrebbe potuto andarlo a cercare, come, aveva disposto nel pedigree/book biologico, pagina 28 del catalogo, da cui Marta e Perla avevano scelto l’identikit del loro donatore ideale. Eppure “nessuno è venuto a bussare alla tua porta”, chiosa; ma non smette neppure per un istante di nominarlo, alludere a lui, evocarlo, bestemmiarlo, in qualche modo, sminuirlo, sbeffeggiarlo, incatenandolo in un doppio legame, che se lo fa sentire forte di un’identità altra, non gli consente, per altro verso, la pace del commiato.

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Un lungo atto d’accusa. Sono le parole dello stesso protagonista, che, ad onta di un tono monocorde e cantilenante, ignaro delle intonazioni e dei colori di quei moti dell’anima, che, s’intuisce, gli esplodono dentro con la più deflagrante delle contraddizioni, dicono di una realtà ben diversa. Come in tutti quei casi, in cui significante e significato volutamente confliggono, ci racconta una storia, che fondamentalmente è la favola, che racconta al bambino spaurito che è in lui. Frattanto il suo  adulto schiuma nel crescendo dissacratorio – nonostante l’intonazione monocorde, le canzoni di Elvis e tutto quell’immaginario pop rock fra svolazzanti abiti di pizzo bianco, a simboleggiare le madri, e girarrosti che frattanto lo cuociono davvero quel pollo intero, che lui, al tempo stesso madre e padre e finalmente figlio e fratello, insieme agli atri figli sparsi al mondo dal quasi anonimo donatore, può divorare senza più sentirsi diverso.

Ma allora cos’è tutto questo? La drammatizzazione di un rito apotropaico? L’uccisione simbolica del padre, che, in termini psicanalitici suggella la sua pretesa ascesa ad un’età adulta e quindi risolta? Non so quale fosse l’intento; la sensazione è che il discorso non riesca a spostarsi a un livello differente da quello di archetipi e prototipi, forse anche troppo tipicizzati. Tutto sembra risolversi con lo sciorinare un profluvio di tesi e antitesi, avanguardismi e luoghi comuni, da cui non traspare altro che il raglio bisbetico dell’adolescente dallo sguardo onfalico, incapace di posarsi sulla molteplicità, fragilità e concretezza delle tante figure coinvolte. Curioso, specie se si considera che – si legge dalla biografia sul loro sito -: “Tra i vari riconoscimenti, Babilonia Teatri riceve il Leone d’Argento della Biennale di Venezia, 2 Premi Ubu, il Premio Vertigine, il Premio Hystrio alla Drammaturgia, il Premio Franco Enriquez per l’impegno civile, il Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro”.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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