Carlo Guasconi, il Premio Tondelli e la “bugia”, che solo il teatro sopporta

Premio Tondelli 2015, “Essere bugiardo”, drammaturgia di Carlo Guasconi, è approdato al Teatro Verdi di Milano, dov’è rimasto in scena dal 24 al 29 ottobre 2017. La storia è quella di un uomo, interpretato da un come sempre impareggiabile Massimiliano Speziani, messo duramente alla prova dalla vita: che, prima, gli ha portato via la moglie – l’agonia lenta e sfiancante di un tumore – e, poi, il giovane figlio, rapacemente divorato dalle fiamme dell’incendio del macello, in cui lavorava.

 

Carlo Guasconi (attore, oltre che drammaturgo vincitore del Premio Tondelli) e Massimiliano Speziani
Carlo Guasconi (attore, oltre che drammaturgo vincitore del Premio Tondelli) e Massimiliano Speziani

Ed ora: cosa gli resta? È difficile anche solo immaginarsela, una situazione del genere, tanto che il regista, Emiliano Masala, adotta l’éscamotage di spiarla da fuori, quasi attraverso le fessure delle tapparelle perennemente abbassate. Con taglio cinematografico, allestisce il palcoscenico come fosse la facciata dell’appartamento, in cui quell’uomo ha seppellito anzi tempo l’ultimo brandello di un’esistenza oramai distrutta: tre tapparelle, che si alzano e si abbasso, scandendo i tre quadri ideali delle stanze del suo dolore – il fuori sembra essere cadenzato solo dal lamento funebre di una civetta. Ma proprio questo, forse, è un po’ il limite: la modalità cinematografica funziona solo al cinema, dove i codici e gli strumenti tecnici, soprattutto, consentono di dilatare volti ed emozioni, zoommando su primissimi piani, capaci di rendere denso quel tempo della non accettazione, che, altrimenti, rischia di diluirsi in noia. Così il primo quadro, in cui i fili del racconto s’intrecciano e le sconnessioni cortocircuitano – perché padre e figlio sembrano non sapere nulla l’uno dell’attuale vita dell’altro? -, ci regala pause lunghissime e silenzi, in cui i due personaggi giustamente solo di rado si sfiorano con lo sguardo – il perché lo capiremo poi, quando capiremo anche perché sia d’importanza così vitale che il figlio non si alzi dal tavolo, al punto da obbligare il padre a mettere in atto comportamenti ricattatori per trattenerlo… Ma, se moltissimo è affidato alla mimica – e chi meglio di Speziani? -, il campo largo del medium teatrale certo non aiuta, tanto più su un palco amplio e all’italiana come quello del Teatro Verdi di Milano. Lo scambio di battute, poi, se da un lato ha il respiro della prosaicità – si rinfacciano reciproche assenze, padre e figlio, con quel colorito rancore tipico dell’incomprensione generazionale, specie in certe stagioni della vita-, dall’altro è costruito su parole-chiave – come niente, sabbia, più avanti orso vestito da pagliaccio e, appunto, bugiardo… –, che, con compiacimento, Guasconi gioca a gettare sul tappeto per poi farle sprofondare e riaffiorare, più tardi, nel sottile abbraccio negato di quei due così differenti, nell’orgoglio reciproco.

Mariangela Granelli e Massimiliano Speziani
Mariangela Granelli e Massimiliano Speziani

Proprio come capita, talvolta, nella vita, i due sembrano condannati a un tantalico sempiterno cercarsi per non trovarsi mai davvero del tutto – né, del resto, mai del tutto perdersi. Ed è proprio questo, il supplizio auto imposto del padre: essersi auto incatenato a quel tavolo della cucina – focolare affettivo per antonomasia -, da cui non può alzarsi, pena il definitivo svanire di quel che gli resta del figlio e della moglie ormai morti da oltre tre mesi. Alzarsi sarebbe come far svanire i loro fantasmi – sue proiezioni del loro affetto e delle residuali preoccupazione per lui -, come ultima illusione di una presenza, a cui proprio non può rinunciare. Eppure sono così diversi, quei due: giovane e vitale, il ragazzo, nonostante il taglio di luce – spettrale -, che lo investe, alludendo fin dal subito alla sua condizione di trapassato; prosaico e sfranto, il padre: piccolo, in quella miserevolezza, che profuma ancora di una devozione incondizionata e quasi vocazionale alla donna amata fin dall’infanzia – come solo Dante con Beatrice… -, ma che, nonostante tutto, sembra non bastare più per farlo uscire di casa, fosse pure solo per portarle fiori colorati sulla tomba, come farebbe quel ragazzino follemente innamorato. Perno di tutto è lei – toccante, eppure misurata, la scena dell’ospedale, con una Mariangela Granelli interprete magistrale -, pragmatica nella sua concretezza schietta, nonostante lo sfinimento per la malattia – e per le massicce dosi di morfina -, che come non lesina delicate note di tenerezza al devoto marito, neppure gli risparmia la sua rabbia, la sua paura e il suo profondissimo amore, in quell’altalenante magma emotivo, che possiamo solo immaginare come possa attraversare il cuore e la mente di chi sappia che sta per morire. Ma è solo nel terzo quadro che il conflitto, elemento portante di ogni drammaturgia, prende davvero forma, schiacciandolo, spalle al muro, questo bugiardo, che finalmente realizza che non può più continuare a mentire. E a chi, in fondo, se non a se stesso, alla vita, alla sottile tentazione nichilista, quando la vita ci depreda con una ferocia così insensata? Qui il teatro rientra prepotente – lontani il minimalismo e l’intimismo da boudoir -, pur senza scordare la misura prosaica della quotidianità. Ed è qui, che si svela l’equivoco: come se le due sole alternative possibili fossero dimenticare aut convivere con due fantasmi; come se l’irruenta scrittura del giovane drammaturgo – il Premio Tondelli, lo ricordiamo, è quello dedicato, all’interno del prestigioso Premio Riccione, agli autori under 30 – non la contemplasse neppure, l’ipotesi della terza via. L’elaborazione del lutto, il superamento e la resilienza, che, pur senza negare, né rimuovere, riesce invece ad inverare, trovare una riformulazione di azione e, forse, di senso. Chissà che invece non sia proprio questa, la soluzione di questo padre, mirabilmente restituita, attraverso il solo registro mimico, da un Massimiliano Speziani, che torna a mostrarci, in tutta la sua gigantesca verità, quanta più realtà ci sia in una finzione teatrale scelta, voluta e consapevolmente perseguita, che non in un simil reale cinematografico, che, in ogni caso, è comunque una lente, che guarda e riporta la vita degli altri.

Francesca Romana Lino

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