Il surreale Cous Cous in agrodolce di Carrozzeria Orfeo

Sono ormai dieci anni dacché gli allora neodiplomati Massimiliano Setti e Gabriele Di Luca insieme a Luisa Supino fondarono la compagnia Carrozzeria Orfeo. Freschi freschi d’Accademia d’Arte Drammatica – la Nico Pepe di Udine, nel loro caso -, scelsero questo ossimoro – la durezza del lavoro di bottega, sì, ma poi anche la poesia leggera e onirica del musico sciamano della tradizione classica – per significare la loro vocazione binaria. Attenzione a una drammaturgia concreta e capace d’incontrare il pubblico, alla pari, su tematiche e con un linguaggio che dicono dell’oggi, ma senza rinunciare a un elemento onirico, capace di restituire poeticità a testi sospesi; la zampata di un non sempre politically correct e quella nota in levare, senza cui il teatro rischierebbe di scivolare in cronaca, perdendo il suo specific essere anche incontro emozionale.

È un’alchimia che si ripete da tempo, almeno a giudicare dalla sfilza di riconoscimenti collezionati in questi anni: fra i tanti, forse quello che più ne suggella l’avvenuta breccia nei cuori del pubblico è quel Premio Hystrio Twister 2016, che fa del loro “Animali da bar” il testo più apprezzato dagli spettatori del Teatro Elfo Puccini di Milano. Se è da “Sul confine” (2009) che azzeccano la collaudata triade registica Gabriele Di Luca (anche drammaturgo)/Massimiliano Setti/Alessandro Tedeschi, è dal successivo “Idoli” che riescono ad intercettare una matta(t)trice del calibro di Beatrice Schiros, adatta, quant’altri mai, a quei ruoli caustici, sì, ma poi anche ricchi di sfumature millesimali e improvvise come solo quelle di ogni esistenza reale.

Cous cous klan © Laila Pozzo

E arriviamo così, in questo crescendo da “Thanks for Vaselina” al già citato “Animali da Bar”, fino a “Cous Cous Klan”, che, debuttato in Prima Nazionale il 12 dicembre 2017, coronerà l’ultima replica all’Elfo Puccini nella notte di Capodanno.

Cous cous klan © Laila Pozzo

La storia è quella di un futuribile, in cui il vero business è la privatizzazione dell’acqua; la concessione di questo bene primario in base a criteri esclusivamente economici ha precipitato la società in un esecerbato divario/conflitto sociale. Siamo qui, in un surreale campo profughi di periferia, in cui troneggiano, come in qualsiasi gioco da tavolo per la conquista di un conteso oggetto del desiderio, due postazioni contrapposte. Sono due roulotte entrambe fatiscenti (sferzanti simboli del Mondo Occidentale e del suo antagonista): da una parte quella dell’ex prete ora nichilista Caio (Massimiliano Setti), che vive con Achille (Alessandro Tedeschi), il fratello ritardato e omosessuale, e con Olga (Beatrice Schiros), l’attempata sorella – obesa, con un occhio solo e in smanie di maternità prima che il suo orologio biologico scocchi l’ultimo rintocco -; dalla parte opposta quella di Mezzaluna (Pier Luigi Pasino), il clandestino musulmano, che lavora in nero per una ditta che traffica in rifiuti tossici, nella speranza di potersi comprare l’agognato permesso di soggiorno e che sembra invece non volerne sapere di farsi saltare in aria per l’onore dei suoi antenati. Ma non si tratta di una partita a scacchi: piuttosto un Risiko, in cui le “alleanze” si creano e si distruggono in modo fluido ed imprevedibile come spesso è, appunto, nella vita. Né mancano le varianti: Aldo (Alessandro Federico), il pubblicitario finito in strada a seguito della separazione dalla moglie, e Nina (Angela Ciaburri), dalla difficile definizione, ma che avrà una portata dirompente negli equilibri improbabili e al limite del grottesco di quella micro comunità. Un testo ben scritto, capace di strappare sonore risate di mirroring, ma anche di raggelarci in fulminee stilettate scoccate in affondo nel nervo scoperto di ciascuno di noi. Ce n’è per tutti i gusti: dall’omofobia al razzismo, dalla ferocia di chi ha dovuto difendersi da una vita che non gli ha certo arriso ai sette pilastri del penso positivo di chi non vuole arrendersi all’evidenza di un’esistenza che va in frantumi… fino ad arrivare alla prosaica pertinacia delle figure femminili, reali, immaginarie o visionarie che siano. Un testo che mischia alto e basso (dalla denuncia eco-socio-politica a miserrime meschinità personali), ironia e poesia, sarcasmo e lirismo e un’irriverenza fino ai limiti dello scandalo, per poi mostrarci che, il vero scandalo, non è certo quello che si esplicita nella rotonda trivialità di una provocazione verbale. E, con ritmo ugualmente incalzante, la regia monta quadri per lo più velocissimi, giocati fra battute al fulmicotone, immagini quasi da sitcom e personaggi apparentemente clichettizzati, ma che, coupe de teatre, sanno all’improvviso rivelarsi altro e poi altro e poi altro ancora, in un continuo ribaltamento di giochi, che vivacizza l’atto unico, di ben 120 minuti, ma che scivola via come una chiacchierata fra amici.

Cous cous klan © Laila Pozzo

E poi la cura che traspare da tutto: dalle scenografie, fatiscenti, nel restituire il degrado, ma poi anche versatili, nell’agevolare il moto perpetuo degli attori, che ben restituisce quel loro nevrotico girare a vuoto – come topi in una fogna, da cui chissà se davvero hanno la voglia e il coraggio di uscire -, alle luci, che segnano il passaggio di molte lune e accendono, insieme alle roulottes, pure il variare delle tonalità emozionali, fino alla musica – discreta eppure puntuale: di quelle di cui quasi non ti accorgi, tant’è intessuta nella trina stessa della drammaturgia.
Ma, soprattutto, la sola possibilità per portare in scena un testo così denso e stratificato era affidarlo al prezioso mestiere di questi attori – tutti! – dalla recitazione grottesca e solforica, sì, ma poi anche sfaccettata e capace di restituire la prosaicità calcolatrice e di accendersi in lampi emozionali, che un po’ il pudore, un po’ la necessità spesso spengono in guizzi di sarcasmo.
Eh, già: proprio come nella vita…

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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