“La città degli specchi”: cordiale amarcord alla disillusione della MilanoDaBere

“La città degli specchi” è il titolo del nuovo spettacolo del Teatro del Simposio, che sarà in scena al Tertulliano di Milano da venerdì prossimo – 24 ottobre – al 26. Un testo paradosso, quasi: chi ne firma la drammaturgia è un napoletano verace, Antonello Antinolfi – naturalizzato milanese da oltre 15 anni… -, che, col cuore in mano – e preziosa grazia poetica –, ci parla come in scaglie di specchi dei sogni traditi dallaMilano da bere. Il vissuto, invece, è quello di Francesco Leschiera, regista, qui, oltre che interprete – in scena col musicista Walter Bagnato – e milanese doc; così ha buon gioco nell’evocare la scighèra – come la si chiamava qui da noi, un tempo, la nebbia -: quando ancora c’era e la si tirava su densa per i polmoni a colmare il cervello di quel freddo buono, che in pochi soltanto amano. Abbiamo fatto una chiacchierata a tre voci, con l’attore/regista e il drammaturgo. Ecco cosa ci hanno raccontato di loro e del progetto.

F.R.L.: “Francesco, dicci qualcosa sullo spettacolo”
F.L.: “La città degli specchi è il primo spettacolo teatrale realizzato a 360’dal Teatro del Simposio. Nel senso che tutto è una nostra produzione: dalla drammaturgia, scritta da Antonello Antinolfi, fino alla realizzazione: mia è la regia e la messa in scena, dove mi accompagna Walter, il musicista. Precedentemente, invece, abbiamo sempre preso testi già esistenti – come “Le serve” di Genet o “Una sera d’autunno” di Dürrenmatt -, fatto delle lavorazioni drammaturgiche e da lì la resa scenica”.

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F.R.L.: “Ma qual è il motivo di questo titolo? Di cosa parla “La città degli specchi”?”
A.A.: “Il testo parla sicuramente della mancanza di futuro, prendendo come spunto un episodio reale. L’ idea iniziale di Francesco era quella di scrivere un testo poetico su Milano. Così una sera, camminando per la città, ci è capitato di metterci ad osservare delle biciclette: “Guarda qua – ci è venuto spontaneo commentare-: il bike sharing. Eppure tutto in fondo era già stato fatto…”. Impossibile non pensare a “Due ruote è bello”, l’iniziativa del 1987, in cui il Comune di Milano mise a disposizione dei cittadini le famose 500 biciclette gialle, affidandole solo al senso civico dei milanesi. Nelle prime ventiquattr’ore ne sparirono 250 e poi a mano a mano sparirono tutte. Questo mi ha incuriosito molto, perché un’iniziativa, che veniva propagandata dal Comune come virtuosa, si è rivelata, invece, un’impresa fallimentare; specie poi in quel periodo. Così come in quel periodo tutti confidavano in un futuro di benessere, ma che poi ha dato luogo al famoso ‘lunedì nero’ – il giorno in cui le borse hanno perso il massimo registrato fino ad oggi in una sola sessione. – era un po’ la ‘Milano da bere’: sempre attiva, che non dorme mai, che ha questa frenesia di divertimento, ma che in discoteca ci va pure per concludere affari; la Milano delle luci, delle insegne… dove tutto è sempre acceso e sfavillante: anche i vestiti. Lo spettacolo resta sempre un po’ in bilico, raccontando, su vari piani, quello che allora era un futuro possibile, ma poi si è risolto in un presente non realizzato.”.

F.R.L.: “Quindi questo spettacolo vuole avere una sua coloritura, un intento politico?”
F.L.: “Nessun intento politico: è la realtà stessa che ti offre delle chiavi di lettura. Perché raccontare quel periodo con gli occhi di chi ci credeva, allora, è semplicemente raccontare la realtà. Ok, poi ciascuno si porta dietro le proprie interpretazioni: del resto secondo noi lo scopo del teatro non è tanto quello di fornire delle chiavi di lettura univoche, ma offrire una possibilità per interrogarsi e degli spunti su cui riflettere. In questo caso ciò, che ci è parso più interessante è lo scollamento fra quel qualcosa che sembrava realizzarsi di lì a poco ed invece il vanificarsi di queste speranza. Ci sembrava molto attuale come problematica – anche perché quella crisi ha riverbero sull’oggi. La Milano da bere resta solo una suggestione sullo sfondo: alla fine un episodio della nostra storia recente, ma quel che vorremmo veicolare è quel disagio non solo economico e sociale, ma anche esistenziale, che viviamo tutti trasversalmente, ai nostri giorni: a Milano come altrove.”.

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F.R.L.: “E tu come ti sei trovato a dover gestire tutto questo nel doppio ruolo di attore e regista?”
F.L.: “In questo caso il lavoro è andato sugli stessi binari. Come ha detto Antonello, questo testo è nato da una nostra chiacchierata notturna. Io sono di Milano ed è capitato spesso di raccontargli di come ho vissuto, ma anche ancora vivo la città da milanese. Lui ha preso tutte queste mie suggestioni e le ha trasformate in un testo poetico. Come regista la sfida è stata quella di tradurre questo testo dalla forte componente poetica  in azione scenica. Così ho pensato di procedere attraverso quadri/flash back, facendomi supportare anche dall’ausilio sia delle luci – fredde nell’intento realistico quelle al presente, più calde, nell’evocazione lirico intima, quelle a rievocazione del passato – che degli oggetti di scena – la vera e propria interazione con le cose del presente avviene su una panchina: in tutta la sua concretezza. N
el mio lavoro attoriale sono andato a scavare nei ricordi del mio passato, cercando di ritrovare le emozioni di allora. Conservo tutt’ora bellissimi ricordi e forti emozioni, filtrate attraverso gli occhi di me allora quindicenne. Per esempio, per quanto riguarda i costumi, il loden di scena è realmente quello che indossava mio padre negli anni 80. In quegli anni a Milano portavano tutti il loden – verde nel 90% dei casi e sennò blu -. Io guardo quel cappotto e automaticamente torno indietro a quel periodo.”

F.R.L.: “Quindi un omaggio alla tua Milano?”
F.L.: “Omaggio a Milano nel senso che anche Milano, per quanto possa sembrar strano, ha una sua poesia. Non c’è bisogno di andare a Roma, Firenze, Venezia – città bellissime. Anche Milano ha un suo fascino, che non è solo quello artistico. E’ proprio la vita milanese che ha una sua storia e questo credo sia qualcosa che ciascuno può sperimentare, arrivando a Milano, proprio com’è successo ad Antonello…”.

F.R.L.: “A proposito, Antonello: tu sei nato e cresciuto a Napoli. A cosa ti sei è ispirato? Da quali stimoli, le suggestioni così autentiche, che riesce a restituire il tuo testo? Evidentemente agli episodi di vita vissuta di Francesco. Sì, ma poi, film, autori: qualcuno in particolare?”
A.A.: “Inevitabilmente i racconti di Testori e ‘Rocco e i suoi fratelli’, anzi tutto – specie quando Francesco mi raccontava di quella nebbia… La cosa per me spiazzante – anche se è la verità – è che a lui piace il freddo! Per me è assolutamente inconcepibile. Così anche se fa parte del suo vissuto, questo ha suscitato tutta una serie di emozioni particolari in me, che avevo un mio immaginario, proveniente sicuramente da altre cose. Il bello di lavorare insieme è stato proprio questa possibilità di specchiarsi – è il caso di dirlo”.

F.R.L.:  “Appunto: ma perché proprio ‘specchi’, che compare nel titolo?”
A.A.: “Sicuramente come modalità utilizzata in fase di scrittura – conferma Antinolfi -; ma poi anche come metafora poetica dell’illusorietà di quel periodo – quasi il gioco reciproco di due superfici che riflettono all’infinito. Ancora: specchio come riflesso del sé, ma anche come lastre riflettenti delle vetrine sfavillanti dell’epoca – che sembravano la lusinga di un paese dei balocchi di facile conquista per tutti, e invece… -; specchio, purtroppo, che in quel periodo si usava pure per disseminare polvere strana”.

F.R.L.: “E poi lo specchio lo ritroviamo protagonista sul palco anche come elemento del corredo scenografico… Tanto più che ci sono due personaggi presenti in scena: c’è un rispecchiamento anche in questo caso?”
F.L.: “A livello scenografico è un modo di rappresentare quegli specchi, di cui diceva Antonello. Ha molti simboli. In questo caso – scenografico – è la cosa più concreta. D’accordo con Ilaria Parente – la costumista/scenografa -,
dato che si tratta di un testo poetico, più che ad un allestimento/scenografia veri e propri, si è pensato a ricreare per suggestioni. Così sul palco compaiono il rudere della bicicletta gialla, fotografie di volti noti e non – come elemento concreto, ma spersonalizzante –, la panchina e pezzi di specchi, appunto, a delineare le strade entro cui il protagonista si aggira, rispecchiandosi… Lui si porta dietro tutto il suo bagaglio di illusioni, in quegli abiti eleganti, ma consunti dal tempo; mentre il secondo personaggio – un ex punk, impersonato da Walter Bagnato -, è uno pragmatico. Quindi se di rispecchiamento fra i due vogliamo parlare, possiamo farlo per contrappunto. Tamburella, il musicista di strada, è un disilluso: uno che ha già ingoiato questo stato di cose e va avanti in modo disincantato e pragmatico. Il protagonista, invece, resta un sognatore: ha vissuto quegli anni “80 come momento di massima speranza e, sebbene le sue aspettative siano state disattese, non perde la voglia di sognare, – ma ha solo modificato il modo di vedere la propria vita”

F.R.L.: “Prima produzioneintegrale del Teatro del Simposio, si diceva all’inizio. Chi siete? Ci racconti un po’ del vostro percorso artistico?”
F.L.: “La compagnia teatrale di fatto è nata 3 anni fa – esordisce Leschiera -, ma Antonello, Alessandro Macchi ed io ci conosciamo da tanti anni – fin dai tempi della scuola d’ attori al Teatro della Contraddizione Poi ognuno ha fatto le proprie esperienze, ma la cosa importante è che siamo sempre restati amici: è da questo che nasce la compagnia, che non a caso si chiama ‘del Simposio’…”

F.R.L.: “Nome filosofico… conviviale?! Ma qual’è il progetto che c’è dietro, quale la vostra cifra poetica?”
F.L.: “Conviviale? In un certo senso sì. Il nostro progetto poetico è quello di voler trovare l’identità dell’uomo, che è un argomento che appartiene a tutti e tre i soci – dice Francesco, cercando un cenno di conferma negli occhi di Antonello -. Il focus della compagnia è l’individuo umano nella sua concretezza: anima e corpo. Di fronte a questo soggetto, la nostra volontà è quella di porci principalmente delle domande e riverberarle al pubblico. Ci piacerebbe trovare delle risposte insieme, perché noi di domande ce ne facciam tante… sulle risposte abbiamo qualche difficoltà!” si schernisce. “Comunque sì: per noi è importante anche l’aspetto piacevole del nostro stare insieme: fra noi e con chi ci segue. Il teatro – fatto o guardato – non può prescindere dall’essere anche un’esperienza appagante, sia da un punto di vista estetico, poetico, intellettuale, che, più prosaicamente, conviviale”.

Salutando Francesco ed Antonello, rinnoviamo l’invito a vedere lo spettacolo, per chi potesse/volesse. Da venerdì 24 (ore 21) a domenica 26 (alle 16.30) al Spazio Tertulliano di Milano.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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