Cosa resta (del teatro)? Rimini Protokoll e il loro Nachlass

Mentre ce ne stiamo più o meno comodamente accoccolati nelle nostre esistenze, nel mondo più di 83mila persone fanno sesso, ne muoiono 108 – Eros e Thanatos, del resto, si sa… A rivelarlo è il canale YouTube di AsapScience, che, non senza una divertita ironia, gioca a snocciolare cosa succede nel mondo ogni 60 secondi.

Già perché sdrammatizzare – che non significa per forza fare ironia – spesso è la chiave, specie quando si abbia a che fare con tematiche tanto forti e con problematiche così primigene e radicate da far allambiccare da sempre l’uomo. Religione, mitologia, filosofia, ma in fondo anche il teatro e qualsivoglia espressione artistica, da dove altro nascono? Non è il bisogno di dare un senso al nostro inevitabile perire e, al tempo stesso, il sogno che qualcosa resti, in qualche modo, dopo questo ed è subito sera? Complice anche la cultura, il temperamento e la propria storia personale, ciascuno poi trova le risposte a lui più congeniali – o, quanto meno, le meno peggiori, nonostante tutto – ed è curioso vedere come ognuno reagisca in modo assolutamente diverso a quelle che, in fondo, sono le medesime sollecitazioni della vita, certo al netto delle variabili accidentali, poi ulteriormente accidentate dall’aver fatto questa o quella scelta.

Quel che resta è quel lascito, in tedesco Nachlass, che i Rimini Protokoll provano ad organizzare nell’omonimo spettacolo in scena al Piccolo Teatro di Milano dal 10 al 20 gennaio 2018. Più che uno spettacolo, un’istallazione, dove, a parlare, sono le assenze. Scandito in otto stanze – chissà, forse solo un caso, ma è curioso notare come questo numero palindromo contenga in sé il simbolo dell’infinito come infinite, infondo, avrebbero potute essere le testimonianze -, si accede da uno spazio ellittico. Un’entrata, su una delle curve brevi, ed una (falsa) uscita di sicurezza, sul lato opposto; e la sensazione immediata è l’asfissia di quelle stranianti sale d’aspetto, in cui spesso vengono ambientati gli allestimenti dell’inferno sartriano. Intrappolati in un luogo del genere – essenziale, asettico, a suo modo confortevole, con la moquette soffice, in cui le scarpe quasi affondano, le luci soffuse e una temperatura forse un po’ troppo calda, ma che certo dice di un altissimo standard di customer satisfaction, che si esplicita anche nella presenza, discreta, delle maschere impeccabili nelle loro divise perfettamente stirate e in quel loro bisbigliare ed annuire garbato e cortese nell’agevolare il pubblico a districarsi nel meccanismo cronometrico dell’apertura automatica delle porte -, in una situazione così viene spontaneo alzare gli occhi verso l’alto. Vi troneggia la mappa digitale del mondo, in cui costantemente si accendono, a macchia di leopardo, delle spie luminose: ci indicano, in tempo reale, che qualcuno sta morendo e dove. A incorniciare questo divino monitor post futuristico, ancora una volta un’ellisse, che, dal greco ἔλλειψις, dice mancanza – di un fuoco unico, di un centro, anche in senso filosofico, religioso o esistenziale. Eppure non c’è nulla di perturbante, in tutto ciò: nulla di più disturbante di quanto non possa essere la gestione dello stress di una qualsiasi esperienza, in cui non sappiamo bene cosa ci stia per succedere. Non è alla pancia che intende parlare, la compagine elvetica. Quel che succede, invece, è che i timer con conto alla rovescia, che occhieggiano da sopra le porte, sfalsatamente scoccano il doppio zero, attivando meccanismi a scomparsa, che invitano gli spettatori a uscire dalla stanza. Nelle singole stanze di fatto sono allestiti solo degli exempla: quello che, in (più o meno ideale) punctum mortis, ciascuno degli otto testimoni reali focalizza di voler lasciare in eredità.
E le considerazioni affiorano spontanee.

Impossibile non accorgersi che già lo stesso ordine casuale d’accesso alle singole stanze sovrascrive una drammaturgia privata, che poi ciascuno integra in base alla propria irripetibilità – che, qui più che in altre situazioni, diventa una forma di co-autorialità. Non è lo stesso parlare di morte e di decadimento psico-fisico, di demenza e del senso di stare o non stare a sopportare tutto questo, a 40, 60 o 70 anni; non è lo stesso, se si sia sostenuti dalla fede incrollabile del pensionato turco Celan Talyp, intento a organizzare i dettagli di quel funerale, che lo ricongiungerà ai suoi cari nello Janna, o se invece, come Nadine Gross, si sia divorati da un dolore fisico così lancinante da aver già fissato la data della propria morte assistita, solo pochi giorni dopo. Non è lo stesso, se come il Professor Richard Frackwiak, si sia trascorsa l’intera vita a occuparsi di malattie neuro degenerative ed ora, alla soglia della vecchia, ci si trovi a ragionare su cosa si sarebbe o non si sarebbe disposti a tollerare, se dovesse capitare a sé, o se, come l’ex orologiaia e patita di fotografia Jeanne Bellengi per un verso o l’ambasciatrice dell’Unione Europea in Africa Gabrielle von Brochowsky o i coniugi Annemarie e Günther, si sia arrivati a un’anzianità, che offre un differente respiro e libertà di visione. E non è lo stesso sentimento quel che si poteva leggere sui volti degli altri spettatori all’uscita delle stanze, a seconda di quanto fossero o non fossero capaci di creare una connessione col proprio vissuto; diverso era lo sguardo di chi aveva appena ascoltato il testamento alla figlia del 44nne Alexandre Bergeroux, segnato da una malattia degenerativa, o il racconto del coetaneo Michael Schwery, pure padre di famiglia, ma incapace di rinunciare al suo sport estremo, nonostante i 40 amici morti praticandolo. Non era lo stesso, perché ciascuno inevitabilmente ci riversava la propria genitorialità – effettiva, mancata, aspirata… – o l’ignoranza di quella stessa condizione. Ecco, ma è proprio questo, il punto: lo iato fra quell’emozionalità, che ha coinvolto – e, in alcuni casi, forse, travolto alcuni – e l’intento, asettico, cerebrale e quasi scientifico, che sembra invece muovere i Rimini Protokoll: che se la studiano a tavolino, l’operazione. Tanto di verità – non solo le storie e le voci originarie, ma anche la ricostruzione dettagliata degli ambienti -, tanto di coinvolgimento del pubblico – che viene invitato a mangiare, bere, applaudire, toccare, rovistare, guardare, sfogliare, osservare, in un coinvolgimento cinestesico, che non sempre ha trovato risposta conforme, complice anche la necessità di leggere i sottotitoli, ma, di più, quel clima asettico, anche emotivamente, che certo non agevolava l’abbandono sperimentale -, tanto di misurato distacco – si sa, la sensibilità mitteleuropea… anche se è encomiabile il fatto che non si sia scaduti in un’enfatizzazione kitsch della morte, ma in una narrazione del lascito dal rasserenato distacco stoico. E poi storie “comuni” e fra loro “intercambiabili”, scelte ad hoc per coinvolgere un pubblico quanto più variegato possibile. Cosa fa, del resto, già di per sé, il teatro, se non raccontare storie – anche banali, a volte, sì, ma poi è il come a far la differenza -?

Poi, certo, è una questione di gusto e di cosa si cerca, quando si vada a teatro: se siete sensibili alle sollecitazioni intellettualmente studiate, qui troverete una pletora di stimoli capaci di soddisfare il vostro autocompiacimento – oltre che di sollecitare una certa qual mole di riflessioni sufficienti a tenervi svegli per più di una notte. Io, che penso ancora che il teatro sia fatto di lacrime e sangue e di corpi e di una verità sempre in bilico fra il personale e il verosimile, ho trovato di una struggenza commovente la stanza di Nadine Gross. Non è tanto diversa, la sua storia di una sofferenza fisica, tale da indurla, attraverso tentati suicidi falliti, fino a decidere per la morte assistita – tematica certo più masticata in Svizzera e che mostra un po’ il fianco della scelta delle narrazioni; anche il turco, del resto: l’immigrato, in Italia, ha più spesso i lineamenti di altre etnie -; quel che fa la differenza è, al netto del ripetersi del medesimo modello acustico istallativo-testimoniale, quella capacità metonimica di far parlare le cose, al posto delle persone. Così il soffice maglione di trina d’angora bianchissima – ripiegato, in buon ordine, in un cantuccio del palco, accomodato sul seggiolino di quel pianoforte che, lei, non suonò mai – è metafora potentissima, con la sua incorruttibile presenza, della prepotenza dell’assenza della donna. E non c’è bisogno di toccarlo – anzi, forse è proprio questo contatto negato ad enfatizzarne lo struggimento. Così quell’occhio di bue, che saltella sul palco ad inquadrare, per sottrazione, il balletto della ragazzina che fu; quel che resta è solo la traccia della sua voce registrata – quella originaria di allora e, a tratti, la sua, nel giorno della registrazione – a dirci, in presenza viva, nonostante tutto, che forse è davvero nella supplica di quel “Ricordatemi, addio!” il vero lascito.

Cosa fa, del resto, il teatro, forse anacronistico, ma necessario strumento d’incontro e scambio interpersonale, che ancora resiste alla sterilizzazione affettivo-relazionale del virtuale, se non per perpetrare la memoria rendendola collettiva – quindi, in qualche modo, immortale?

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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