Fare teatro in Israele. Intervista a Smadar Yaaron

Il 13 Giugno 2018, nella sala Ketty La Rocca del Centro Le Murate/Progetti d’Arte Contemporanee è andato in scena “Um Muhamad”. Primo spettacolo della trilogia “Akko, My Love” dell’attrice e coreografa Smadar Yaaron (sito ufficiale), fondatrice insieme a David Maayan dell’Acco Theatre Center (sito ufficiale), ad Acco, nel nord di Israele. La serata è stata realizzata con il contributo economico dell’Ambasciata di Israele in Italia e con i contributi dei fondi 8xmille dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, per i 70 anni di Israele. Ho avuto il piacere di assistere alla performance ed il giorno dopo di incontrare per un’intervista Smadar Yaaron. Ci siamo incontrate vicino alla Sinagoga di Firenze ed il dialogo è stato estremamente interessante. Segue un estratto della nostra intensa conversazione:

Claudia Roselli: Ciao Smadar, grazie per aver accettato il mio invito ad intervistarti. Quando hai creato “Um Muhamad”? Come è nato questo lavoro?
Smadar Yaaron: Sette anni fa ho cominciato un progetto. Una trilogia con il nome di “Akko, My Love”. La trilogia è composta ovviamente da tre pezzi: e potrei definirla una sorta di documentazione, ma non solo. Il lavoro è composto con un ordine, ed in tutti e tre i pezzi c’è sempre una donna palestinese di Acco. La prima performance “Um Muhamad” ha come protagonista una donna palestinese anziana e fa parte di questa trilogia. Nella seconda performance, che si intitola “Nawal”, e che è stata presentata in Israele e non qua, c’è un intervista video, sempre ad una donna palestinese, che si chiama Nawal in questo caso, ed io recito live sul palco, interagendo con il video. È costruita nella stessa maniera della prima, dove come hai visto, c’è un video della donna.

smadar yaaron
Smadar Yaaron a Firenze durante l’intervista (foto: Claudia Roselli)

C.R.: Struttura similare di “Um Mahamad”?
S.Y.: Sì struttura similare, ma nella seconda performance io stessa non rappresento un’anziana ebrea, ma piuttosto una donna tra quaranta e cinquanta anni. Per la terza parte, che ho realizzato due anni fa, io stavo cercando una bambina palestinese ad Acco, ed ho trovato un intero gruppo di bambini. Ho deciso allora di lavorare con l’intero gruppo di bambini artisti.

C.R.: Parli di Acco. È la città da dove vieni? Sei nata ad Acco?
S.Y.: No io sono nata a Tel Aviv, nel centro di Israele. Acco è una città del nord di Israele. Sono arrivata ad Acco trentadue anni fa, con un gruppo di artisti diretti lì per fondare un Teatro.

C.R.: Perciò la ragione per la quale sei arrivata ad Acco è una ragione artistica e creativa..                                                                                                                                   S.Y.: Forse ancora meglio di questo… In quel periodo io ero sposata con David Maayan, che ha fondato il teatro di Akko. Fu una sua idea, non mia. Lui è un artista incredibilmente talentuoso. Non siamo più sposati, siamo divorziati adesso. Lui ebbe questa visione, di andare ad Acco, che è una città mista: abitata da palestinesi ed israeliani. Questo dettaglio è molto importante per lavorare con la popolazione della città. Tanti di loro sono palestinesi. La seconda ragione del perché lui volle andare ad Acco, è che è lontana dal “centro”. Trenta anni fa le cose nel teatro sono state influenzate in maniera molto forte da Grotowski e dalla sua scuola di teatro; dall’Odin Teatret, un teatro che si trova in Danimarca. I “figli” di Grotowski sono arrivati in Italia, hanno fondato il teatro di Pontedera (Pisa) per esempio. Noi abbiamo agito seguendo questi insegnamenti, per essere in contatto con la comunità nella quale viviamo, per notare le questioni antropologiche, per fare un teatro molto fisico, che noi abbiamo chiamato teatro psico-fisico. Oggi Natura e Spirito sono stati molto attraversati e può sembrare di parlare di cose New Age, ma trenta, quaranta, cinquanta anni fa quando Grotowski cominciò con le sue pratiche, non erano così popolari come oggi. Oggi noi sappiamo, lavoriamo con le connessioni corpo ed emozioni, anima e mente, ma noi lo facemmo in quel periodo.. ed una delle cose che Grotowski ci dette sulla quale lavorare, era proprio quella di lasciare il centro del nostro paese e di andare lontano con gruppo. Cominciando a creare qualcosa di nuovo da zero, cercando un linguaggio per il teatro e questo è perché siamo andati ad Acco.

C.R.: Siete andati ad Acco per creare un nuovo gruppo di teatro dall’inizio.
S.Y.: Ed anche per creare un contatto con gli abitanti, perché per David in quel momento era una cosa fondamentale, ed io l’ho seguito. Lui era mio marito, ma non soltanto, era anche il mio insegnante. Io non ho imparato il teatro, ho imparato “educational theatre” e questo per me è il tipo di teatro più importante. Come lavorare con le persone nel mondo in ambito artistico: usando lo psico-dramma.

C.R.: A parte la sua lontananza dal centro, perché avete scelto proprio Acco? Per la forte presenza palestinese?
S.Y.: Primo perché è veramente lontana dal centro. Secondo perché è una città antica: c’è veramente tantissima storia. Terzo, ma forse primo, perché è veramente una città araba. Noi israeliani l’abbiamo invasa, l’abbiamo occupata, noi abbiamo occupato tutta la Palestina; ma ad Acco è molto forte questa sensazione perchè è una città totalmente araba. Questo è il motivo per il quale noi siamo andati lì. Per essere in contatto.

C.R.: Quando avete fondato il gruppo Acco Theatre Center?
S.Y:: Nel 1985.

C.R.: Hai citato Grotowksi come uno dei vostri maestri.
S.Y.: Sì andavamo spesso a Pontedera da Roberto Bacci. Lui è stato per noi una sorta di padre: quando abbiano fondato il nostro teatro noi non avevamo davvero niente. Lui ci ha incoraggiati, ci ha aiutati, ci ha dato energia. Lui è anche venuto ad Acco. Questo background è stata la nostra luce. Non solo Grotowki, anche se Grotowski è stato cruciale per noi. Noi abbiamo preso da lui il training: tutti i giorni allenarsi, fare acrobatica, e veramente impazzire, andare in mezzo alla natura, salire sugli alberi. Eravamo giovani. Sì, siamo stati molto influenzati dagli insegnamenti di Grotowski, ma non solo dai sui insegnamenti, anche dalla danza butoh. Abbiamo avuto delle influenze molto forti, trenta anni fa. Adesso anche la danza butoh è molto conosciuta. Noi trentacinque anni fa abbiamo incontrato Kazuo Ohno: lui venne alla Tel Aviv University, prima ancora che andassimo ad Acco. Fu uno shock. Tutte queste cose insieme, con lo psico-dramma. Mettemmo tutto insieme e andammo ad Acco, e questo è il risultato.

C.R.: È una storia molto bella, ed è molto emozionante ascoltarla. Quando avete cominciato il vostro processo creativo ad Acco eravate il primo gruppo teatrale israeliano che ha dedicato il suo lavoro ad un gruppo misto di ebrei e palestinesi?                                                                                                                                  S.Y.: Quando abbiamo cominciato eravamo gli unici, credo. Ma oggi ce ne sono tanti. È una sorta di must in Israele, se oggi vuoi essere veramente figo, devi avere almeno un partecipante arabo nel tuo spettacolo. Sono un po’ cinica, ma oggi è così. La cosa speciale nel lavoro ad Acco è stata che noi non siamo arrivati con un concetto in testa, ma con il desiderio e la voglia di incontrare le persone, di comunicare con loro. Veramente noi non sapevamo che sarebbe successo, che sarebbero arrivati a lavorare insieme persone arabe ed ebree, poi è successo. Forse perché Acco è una città araba e la vita tra tutti gli abitanti è veramente condivisa, perché la città non è così grande ed è molto difficile creare un ghetto lì. Davvero Acco è piccola, non c’è possibilità di creare quartieri separati, tu incontri tutti, ovunque: nel supermercato, dal dottore, per strada.

Smadar Yaaron in “Uhm Mohamed” (foto: Oshri Cohen)

C.R.: “Uhm Mohamed” è il primo lavoro tuo che vedo e mi ha colpito molto anche la forte interazione con il pubblico in sala. In tutta la performance c’è una grande tensione alla ricerca del contatto con il pubblico.
S.Y.: Sì. Io sto cercando un incontro, voglio incontrare il pubblico. Ancora cito David Maayan, lui ha spesso parlato dell’effetto del teatro nel passato: un rituale, lo scambievole rituale di un’intera comunità; ed anche Grotowski ed Artaud quando hanno parlato del teatro, della performance, hanno parlato anche a lungo degli sciamani. Questa è la strada che abbiamo percorso per costruire Acco Theatre, la modalità che abbiamo usato per fondarlo. L’attore ha un compito. Sicuramente io sono lì, sul palco, perché sono narcisista, perché voglio essere amata sempre da tutti, perché sono egocentrica e megalomane per certi versi; questa è una parte, ma ci sono altre parti, ci sono altre cose: io sono impegnata. Quando salgo sul palco, io non salgo sul palco, così tanto per fare. Io sono impegnata, questo è il mio punto di vista, è la mia regola, ed anche la regola di Acco Theatre. Sai perché stai facendo questo. Sei sul palco per una motivazione, vorrei citare un altro gigante: Peter Brook. Ho letto una volta una sua intervista, diceva: “Nel momento nel quale noi capiamo che siamo qui per il bene, noi siamo qui per il bene.” Se le nostre azioni ed il nostro stato mentale sono concentrati su questo, cambia tutto. Dobbiamo capirlo, siamo qui per il bene, per fare del bene, per fare qualcosa di necessario, qualcosa che in un certo qual modo, sotto certi punti di vista è necessario: da qualche parte, forse prima di tutto dentro noi stessi.

C.R.: Come hai costruito la trilogia? In che modo hai cominciato?
S.Y.: Noi negli anni novanta abbiamo fatto un grandissimo lavoro, “Arbeit macht frei – Mitoitland Europa”. Si può trovare il materiale su internet. E’ uno spettacolo molto forte con il quale siamo stati invitati, in Germania, in Svizzera, in Austria, in Polonia. Un lavoro di cinque ore, basato sulla storia dell’Olocausto ebraico. Ma la domanda è come l’Olocausto ha influenzato noi, ovvero gli attori, nel presente. Noi siamo la seconda generazione; in Israele c’è questa suddivisione: la prima generazione, quella delle vittime; la seconda generazione è composta dai figli delle vittime. Io appartengo alla seconda generazione. Questa è sempre stata la struttura della creazione, partiamo da materiale che in qualche modo ci appartiene, da noi stessi e la nostra storia. Mi sono un po’ persa…

C.R.: Ti avevo chiesto come hai costruito la trilogia. “Um Mahamad” è il nome della donna palestinese che compare nel video dietro di te. “Nawal” è il nome di un’altra donna Palestinese, protagonista con te del secondo pezzo della trilogia, e mi hai detto che nella terza performance, hai lavorato direttamente sul palco con questo gruppo di nuova generazione di giovani palestinesi.
S.Y: Sì nel terzo pezzo ho lavorato con Maisara che ieri era il mio servo nello spettacolo. Lui è stato il regista dei bambini. Ed il titolo della terza performance infatti è “Heela” che è il nome del gruppo. Maisara ha un gruppo di giovani talenti arabi: fanno un sacco di cose, cantano, danzano, recitano. Io e Maisara abbiano lavorato insieme con questo gruppo “Heela” ed abbiamo lavorato tutti insieme nel palco: sei bambini, io e Maisara. Loro stanno raccontando la storia della terza generazione di sopravvissuti, alla quale infatti appartengono. Infatti il titolo completo del terzo pezzo della trilogia è “Heela: la terza generazione”. Avevo cominciato a raccontarti di “Arbeit macht frei” per connettermi alla tua domanda, perché quando noi abbiamo lavorato a questo nostro primo lavoro, che abbiamo realizzato nel 1991, abbiamo fatto tantissime interviste ai sopravvissuti dell’Olocausto, ebrei certamente. Dopo la fine di Arbeit, dopo qualche anno, io ho cominciato a sentire la curiosità ed il bisogno di intervistare delle persone anziane dell’olocausto della Palestina. I sopravvissuti al disastro del 1948, il “ankba” della Palestina, quando fu fondato lo stato di Israele. La maggioranza dei villaggi Palestinesi fu demolita, la maggioranza dei Palestinesi lasciarono il paese, e scapparono altrove: in Libano, in Siria. Questo è quello di cui parla anche Um Mahamad nel video.

C.R. : Sì nel video…
S.Y.: Forse è cominciata proprio così, pensavo “voglio fare un’intervista” e l’ho fatto. Quando ero in un’officina ad Acco per la mia macchina, il padre dell’uomo del garage era seduto lì, aveva una settantina di anni ed ho cominciato a fargli domande, e lui mi ha risposto. Ho cominciato allora a pensare ad un lavoro artistico basato su un’intervista e sulla storia; poi poiché amo così tanto Acco è nata una trilogia. Un po’ come “Arbeit macht frei – Mitoitland Europa”, noi abbiamo mostrato l’influenza dell’Olocausto sulla seconda generazione. Ho fatto qualcosa di simile, ci sono cioè dei punti di similarità, nella trilogia. Ho scelto la signora anziana come testimone del primo lavoro, poi la signora sulla quarantina per il secondo lavoro, e poi nel terzo lavoro, c’è la terza generazione, le persone giovani. Come la storia della Palestina li ha influenzati, come la storia dei loro nonni li ha modificati, cosa conoscono, cosa sentono… questa è la trilogia.

C.R.: Hai trovato una modalità di dialogo tra persone attraverso questi lavori? Immagino che tu abbia presentato la trilogia ad Acco e in altri luoghi di Israele ed immagino che persone di entrambe le culture abbiano avuto accesso alla visione. Ne sono nati dialoghi sul lavoro?
S.Y.: Sì qualche volta. Se intendi durante le perfomances in sé per sé no; ma un certo dialogo è accaduto, e questa è l’unica modalità. Penso che ho fatto questo lavoro, “Acco my love” perché sin da quando sono arrivata ad Acco trentadue anni fa, non ho mai smesso di essere entusiasta delle persone lì, della loro cultura, delle loro storie e della loro Storia e della generosità della gente. Ho avuto il desiderio di condividere questo con la Comunità Ebraica, con gli Israeliani. Alcuni perlopiù non sanno niente della storia e se sanno qualcosa, spesso sono bugie. Non conoscono la verità. Noi abbiamo negato la nostra storia, e non abbiamo detto nulla. Questo è stato il primo obbiettivo del mio lavoro. Ed il secondo obbiettivo, lo so, la mia coscienza è orribile ma voglio pulirla, è quello di dare ai miei amici palestinesi, la sensazione di essere visti. Come se qualcuno li stesse osservando. C’è questa espressione in ebreo, “le persone trasparenti”. Conosci questo modo di dire? È valido in tutto il mondo, certo che lo conosci, le persone trasparenti, quelle che non vediamo. Quelle che stanno per strada… non le vediamo.

C.R.: Come se fossero invisibili.
S.Y.: Sono visibili, ma non le vediamo. Li vediamo, ma non prestiamo loro attenzione: sono quelli che puliscono le nostre case, che fanno cose per noi, che normalmente non hanno i nostri stessi diritti e le nostre stesse capacità. Gli stranieri, i forestieri, le persone che provengono da territori occupati. Questo per me è peculiare, io vorrei puntare la luce su queste persone trasparenti.

“Heela: the third generation” (foto: Oshri Cohen)

C.R.: Hai usato anche il cibo durante il lavoro: una modalità interessante di interagire con il pubblico. In “Um Muhamad” c’è anche un modo molto particolare di concludere il lavoro. Mandi via gli spettatori dalla sala.
S.Y.: Sì, in Acco Theatre non si esce mai per prendere l’applauso, preferibilmente mai. Con i bambini lo facciamo, la spiegazione è la presenza stessa dei bambini. Per loro è importante, ne hanno bisogno. Ma nel mio lavoro io non voglio l’applauso, perché nel momento nel quale tu ricevi un applauso, tu mandi fuori qualcosa, esprimi qualcosa. Io invece voglio stare con le mie sensazioni, andarci a casa e lasciarle esplodere dentro. Questo è quello che voglio, che preferisco. Normalmente infatti non faccio mai un talk dopo la performance. Forse il giorno dopo, come ho fatto oggi. Perché quando si comincia a parlare immediatamente dopo la performance – a livello inconscio – prendiamo cose dal nostro centro emozionale e le portiamo nel nostro centro mentale e poi cominciamo a parlare. Questa è la nostra modalità di evitare i sentimenti, e di non affrontare qualcosa che per noi possa essere sconveniente. Siamo tutti bravi a parlare, tutti. Dopo la mia performance io non voglio, veramente non voglio, nessuna valvola di sfogo. Nel frame work del mio lavoro io posso controllare e posso decidere di mandare fuori il pubblico, cosa che infatti faccio alla fine di “Um Muhamad”, ovviamente la durata del loro allontanamento non posso controllarla. In un’altra performance, io lascio il palco. Le persone applaudono ma io non torno indietro.

C.R.: Quale è il titolo d queste performance?
Y.S.: Questa è una performance molto intensa: “Wish upon a star”. L’ho presentata a Venezia, alla Biennale Danza, dodici anni fa. È un lavoro molto interessante, un altro assolo che ho prodotto. Ho lavorato con un oggetto: una grande stella di David. Alla fine della performance l’ho staccata dal gancio al quale era appesa, me la sono messa sulle spalle, proprio come una croce, ed ho lasciato il palcoscenico, senza tornare indietro.

C.R.: Hai mai presentato in Italia prima di questa volta qualche pezzo della trilogia o questa è la prima volta?
Y.S.: Questa è la prima volta. Ho presentato “The Anthology” un’altra performance a Firenze, sempre invitata da Laura Forti. In Italia, sono stata precedentemente con altri lavori, per esempio a Venezia. Ma con un pezzo della trilogia, con “Um Muhamad” è la prima volta.

 C.R.: Durante la presentazione del tuo spettacolo presentato e sostenuto dalla Comunità Ebraica, Laura Forti ha detto che principalmente ci sono due gruppi teatrali che lavorano, anche a livello sociale, con gruppi misti di Israeliani e Palestinesi.
Y.S.: The Ebrew-Arab Theatre in Jaffa ed Acco Theatre Center, in Acco.

C.R.: Hai qualche progetto speciale per il futuro?
Y.S.: Il mio ultimo progetto è stato presentato qualche mese fa. L’ho fatto con Maisara, ed è intitolato “The last Arab”. È un musical-cabaret. Sia io che Maisara partecipiamo al progetto ed anche dei magnifici musicisti che suonano dal vivo nel palco, ed anche la figlia di Maisara che ha diciotto anni ed è una fantastica cantante in arabo. È un cabaret in forma teatrale. Maisara è chiamato e rappresenta l’ultimo arabo. Lui in quanto arabo capisce che sia quasi impossibile per gli ebrei ed i palestinesi vivere insieme, e che gli arabi sono considerati un problema per gli ebrei. Così pensa di fare un’azione coraggiosa e di lasciare il paese, portando con se tutti gli arabi. È una satira, ironica e cinica, ma è fatta con un sacco d’amore. Maisara ed io siamo amici, e vicini di casa ad Acco. Io conosco la sua famiglia e lui conosce la mia famiglia, passiamo molto tempo insieme.

C.R.: Il gioco tra i confini delle culture e delle diverse storie: questo confine è veramente sottile, ma l’ironia della quale hai parlato è tangibile anche in “Um Mahamad”. Probabilmente è diverso, visto che hai detto che questo è un pezzo di teatro-cabaret.
S.Y.: Ho detto cabaret, ma è in realtà molto vicino ad un musical. In “The last Arab” si canta tutto il tempo. Con noi ci sono questi musicisti arabi, veramente superbi. Loro suonano musica araba e noi cantiamo mescolando canzoni ebree ed arabe. Questo è quello che amo di più.

Smadar Yaaron in “Nawal” (foto: Arale Golran)

C.R.: In questa trilogia, con quali elementi hai lavorato? Mi hai detto che hai lavorato con la figura di una donna.
S.Y.: La principale decisione per tutte e tre le parti, fin dall’inizio, era che la protagonista doveva essere una donna. Io ho deciso che doveva essere una donna, una donna palestinese, e che vivesse ad Acco. Poi ho scelto le età: l’anziana, la donna matura e poi la bambina. Prima di tutto ho fatto un video, con delle interviste. Ho posto delle domande alla donna anziana, alla donna matura ed ai bambini. Ho tutte le interviste ma non sono tradotte in inglese. Per esempio ho almeno tre ore di registrazione dove io sono seduta con il gruppo dei giovani bambini di Maisara, e faccio loro un sacco di domande, ma ho anche qualcosa di corto, una piccola clip dei bambini che parlano.

C.R.: Volevo capire il tuo processo creativo per la composizione della trilogia…
S.Y.: Come ti ho detto, è cominciato dal desiderio di intervistare le persone anziane. Gli israeliani pensano che sia necessario ricordare l’Olocausto e che gli anziani debbano essere intervistati, perché cominciano ad essere molto vecchi, e moriranno.

C.R.: Per costruire una sorta di archivio delle memorie.
S.Y.: Spielberg ha realizzato un grande archivio “The Steven Spielberg Jewish Film Archive”, i palestinesi non hanno un archivio. Dieci anni fa ho provato a cercarlo, ma non lo hanno. Esiste del materiale, ma non in Israele, ed è materiale nascosto. Non vogliono confrontarsi con la tragedia dei Palestinesi, è una materia molto delicata. Ho cercato questo materiale a lungo, poi ho pensato: “vivo ad Acco, ci sono un sacco di persone anziane qui, voglio fare loro delle domande, vorrei intervistarli.” Così ho cominciato. Il secondo lavoro della trilogia aveva come protagonista una signora che adesso non è più in vita. Era dipendente da droghe pesanti, era una mia amica e viveva ad Acco. La amavo tanto, ma avevo una relazione molto difficile con lei, perché lei era tossicodipendente e spesso veniva da me, chiedendomi soldi.

Smadar Yaaron in “Nawal” (foto: Oshri Cohen)

C.R.: Ho letto che purtroppo il problema della droga ad Acco è una realtà diffusa.
S.Y.: Niente è a caso. Quale popolazione è maggiormente esposta alla povertà, alla droga, alla violenza? Non solo in Israele, ma ovunque: dove in società si trovano minoranze non riconosciute e dimenticate dallo Stato. Questo è il risultato. Molto semplice. La società Palestinese è ignorata. Con Nawal, la donna del video della quale ti parlavo prima, sono successe due cose molto interessanti: la prima è che vedendo la sua dipendenza io ho pensato alle mie dipendenze, come essere umano. E questo ha fatto parte del processo creativo. E la seconda cosa è che lavorando con lei ho percepito la mia dipendenza da Acco, la città, perché è una sorta di dipendenza, di ossessione. Ed il terzo aspetto, nella creazione di Nawal, è dedicato al ricordare ed al dimenticare. La capacità di ricordare e la capacità di dimenticare. Per esempio dimenticare o ricordare la storia, provare a dimenticare, provare a ricordare… questo è molto forte in questo lavoro.

C.R.: Spero di poter vedere un giorno l’intero lavoro, l’intera trilogia. Per poter godere di tutti gli aspetti presentati, nelle diverse età, nelle diverse generazioni, nella città di Acco.
S.Y. : Sempre cercare qualcosa; trovare qualcosa e lasciarlo andare fuori, questa è la mia terapia.

C.R.: Nel terzo lavoro invece, con i bambini, che cosa hai esplorato?
S.Y.: Capire come la storia della Palestina, oggi Israele, ha influenzato la loro crescita, la loro vita. Che cosa sentono oggi, come giovani Palestinesi in Israele. Questa era la cosa più interessante per me, ed ho fatto un’intervista con loro dove ho chiesto loro che cosa gli hanno raccontato i loro nonni

C.R.: Una sorta di esplorazione sui sentimenti dei bambini oggi.
S.Y.: Loro sono il futuro. I bambini.

C.R.: Smadar ti ringrazio per il tempo dedicato a questa intervista.
S.Y.: Grazie a te, è stata un’interessante esperienza anche per me.

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