‘Notturno’ Cluedo di Filippo Renda ne ‘la casa del sonno’ di Coe

Se c’è una cosa che risulta subito evidente, assistendo a questo “Notturno” – in scena al Teatro Filodrammatici di Milano fino a domenica 18 gennaio – è che il regista Filippo Renda è giovane, ambizioso e sa il fatto suo.

filippo renda
filippo renda

Così, folgorato da uno dei romanzi di Jonathan Coe“La casa del sonno” -, contatta l’autore, ne ottiene i diritti e si cimenta nel dissezionarlo. Lo smembra. E poi, di nuovo, lo ricuce insieme. Ne fa una cosa propria: un monstrum, che si discosta dall’originale per sublimarsi in ‘creatura’ a se stante. La trama – essenzializzata anche quanto a numero di personaggi e vicende – resta quella: la storia, au rebours, di alcuni pazienti della casa di cura e le vicende, che s’intrecciano, all’indietro, come contorte radici di un minuscolo bonsai. Quel che ne scaturisce è un ensemble, che, pur mantenendo l’andamento del giallo dal retrogusto noir e steampunk – che qui si fa cifra stilistica oltre che narrativa -, di fatto si trasforma in un pretesto. Non “la ragione del sonno”, quindi, come recita il sottotitolo: non in senso illuminante ed illuministico, quanto meno. Piuttosto la sua critica: l’invettiva – pungente, benché macchinosa -, di un sistema-società a tal punto a bagno nel brodo cosmico della nevrosi, da non poter generare che inconsapevoli mostri dell’incomunicabilità; sonnambuli, che si aggirano come zombie inemendabili e virali.

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Irene Serini

Ma Renda è giovane – oltre che scaltro e consapevole -; così la trovata è quella di giocare una partita di Cluedo col pubblico. Consegna lui stesso carta e penna all’entrata, sfidando a prendere appunti per poter ricostruire il puzzle completo; di fatto inducendoli a quella pratica di oggettivazione, adottata pure da certi orientamenti psicanalitici. L’intento? Aguzzarne l’attenzione, in questo rituale di visione collettiva. Già, perché di questo, si tratta: l’amplificazione della visione, l’iperbole del voyerismo. E se questo già di per sé si fa, a teatro – si guarda, protetti dal buio della sala -, non fa specie che, in una società come la nostra – che tutto spia, mostra, condivide… -, anche la modalità di fruizione classica venga esasperata.
La visione della visione nella visione. No, non è un improbabile mantra; ma quel che viene da pensare di fronte alla scenografia di Eleonora Rossi – suoi pure grafica ed i deliziosi, curati ed azzeccati costumi. C’è un velo, a fil di proscenio, volutamente rappezzato – altro rimando psicanalitico? -, su cui sfilano sia i disegni degli interni british – per agevolare la ricostruzione dei fatti -, che i contributi testimoniali – le lettere, che ci vengono mostrate nell’atto stesso dello scriversi, piuttosto che i filmati degli interventi del Doctor Watts, interpretato dallo stesso Renga. A fondo palco un altro schermo: per quasi tutto il tempo anonimo fondale e poi a sua volta separé, dietro cui un gioco di ombre proiettate ci racconterà lo snodo cruciale della vicenda.

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Alice Rendini | Irene Serini

Salta subito all’occhio – mai espressione fu tanto azzeccata, anche per le implicanze a livello drammaturgico – che questo rimando regressivo all’altrove non avrà mai fine: quasi solo uno sterile e pruriginoso gioco di scatole cinesi, attraverso cui vien messo in discussione il ruolo stesso del deus ex machina. E non importa se sia ‘il terapeuta’ o ‘il regista’: tratto comune, forse, è che sono comunque ‘funzioni’, ma che poi devono essere inevitabilmente incarnate nella concreta fragilità del singolo.
Così non fa specie che, per reazione, lo svelamento finale avvenga in modo forte ed iconoclastico attraverso l’esplosione della luce, anzi tutto. Se per quasi tutto il tempo ‘notturno’ è stato non solo l’eco del titolo della pièce, ma spesso anche il tipo d’illuminazione sul palcoscenico – acceso solo da tagli di luce marcati e lampadine ed intermittenze dal simbolismo preciso -, la rivelazione finale, al contrario, viene coreografata da un faro accecante puntato sul pubblico e da una furia di deflagrazione di veli e pareti – che strizzano l’occhio ad un certo Latella -, dopo che per tutto il tempo, le vicende dei protagonisti ci son state lasciate spiare attraverso un velo, ingabbiate in uno spazio asfittico, semibuio e che trasuda nevrosi.
Sono la storia di Cleo, l’androgina “valletta del Dottor Watts” – come si autodefinisce – e quella di Sarah T, paziente lì in cura per la sua narcolessia. Ancora una volta, è solo un pretesto: non conta tanto il loro essere lì, ma quel che viene chiesto è ricostruire l’iter che ce le ha portate. L’intrico della trama ne rivelerà il passato comune, ovviamente, spiegando la ragione dell’essere – entrambe – quei fantocci gotici, grotteschi, sconnessi, scompensati, nevrotici ed irriverenti, che le due attrici – Alice Rendini e Irene Serini – sanno restituirci con una bravura ed con tempi, ritmo, mimica ed accenti assolutamente corretti e godibili. Quasi una storia di burattini, dunque: e di un gran burattinaio certo non meno inadeguato dei suoi giocattoli interrotti.

Per chi voglia saperne di più, sono previsti due incontri di approfondimento venerdì 16 e sabato 17.

 

Teatro Filodrammatici | Milano
3 / 18 gennaio 2015

NOTTURNO
La Ragione al Sonno
liberamente tratto da La Casa del Sonno di Jonathan Coe | di Filippo Renda | con Alice Redini,Filippo Renda e Irene Serini | scene, grafica e costumi Eleonora Rossi | musiche originali Patrizia Rossi | disegno luci Marco Giusti | regia Filippo Renda | produzione CRASC | con il sostegno di Ludwig e Idiot Savant

Francesca Romana Lino

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