L’operazione Lisma a sdrammatizzare sull’italianità

In scena dal 21 novembre al 14 dicembre 2017 al Teatro Franco Parenti di Milano – che ne cura anche la produzione -, “L’operazione” è creatura di Rosario Lisma. Lo è, perché suo è il testo, sua la regia e suo il ruolo del regista, che, in un frizzante divertissement di teatro nel teatro di pirandelliana e, come lo stesso Lisma, sicula memoria, gioca a scardinare e analizzare certe dinamiche sociali e non soltanto teatrali. Vi ritroviamo tutti i suoi topoi: l’impegno, che pesca nelle pellicole tra intrigo politico e terrorismo (di questo racconta la pièce, che la compagnia, di cui racconta il testo, sta portando in scena), l’amore per una leggerezza, che spesso volge in commedia il retrogusto caustico della satira e un immaginario, che strizza l’occhio a quel ben pensare, che nonostante tutto non ce la fa ad arrendersi ad un cinismo tanto sconsolante, quanto dilagante.

La trama narra di un gruppo di scalcinati giovani attori – ignoti come quei soliti -, che si arrabattano, loro pure, per sbancare un lunario fatto di marchette televisive o parti minori entro produzioni grandi e ben paganti, pur di potersi poi dedicare all’autoprodotto spettacolo di drammaturgia contemporanea home made. E si respira la stessa atmosfera neorealista, mutatis mutandis; ma, a cinquant’anni di distanza, la vera schiavitù non è più quella di chi, per tirare a campare, è costretto a vendersi la propria rispettabilità, rischiando la galera magari poi soltanto per un piatto di pasta e ceci. Sono altre le ambizioni di questa stagione 2.0 della commedia all’italiana. Nell’epoca della comunicazione, cosa di meglio, infatti, che riuscire ad intercettare il critico giusto, il solo capace di dare lustro, visibilità e riconoscimento al proprio (capo)lavoro? E come convincerlo a vedere lo spettacolo? Lusinghe, più o meno velati “corteggiamenti”, equivoci e giochi di seduzione – e, quando tutto manca, far proprie le dinamiche dell’ideologia “armata” dei primordi degli anni ’70 fino ad arrivare a progettarne il rapimento. Il fine giustifica i mezzi? Non dimentichiamo che qui siamo in una commedia: e, così, fors’è più azzeccato che non tutte le ciambelle riescano col buco.

Frattanto tutto quel dietro le quinte, che è profondo spaccato, anche socio economico, di una generazione precaria a prescindere dal fatto di aver scelto questo particolarissimo lavoro. Già, perché forse che non è applicabile anche al di fuori dell’ambito teatrale, la riflessione secondo cui, ad esempio: “In questo Paese sei sempre un giovane, finché non svolti… E, se no, diventi direttamente un fallito!”? Però, nessun moralismo: sempre in linea con l’allure leggera della commedia, i momenti di maggior pathos vengon spesso spazzati via dalla battuta in levare, che minimizza il clima cupo, a cui certe riflessioni avevano sospinti; quasi un horror vacui, ma poi resta resta il dubbio che si rischi invece di far perdere quel disagio, che, solo, può portare ad una presa di coscienza più duratura dello scroscio fulmineo di una risata. Così sono gli stessi castiga costumi a rivelarsi venali nella spasmodica, esilarante ricerca di consensi della critica – dall’improbabile inviata della Gazzetta di Buguggiate all’ancor più disagiato critico del web, passando attraverso la cugina, maestra delle elementari, che recensisce solo per non pagare il biglietto, fino ad arrivare al capriccioso e incostante critico “prestigioso” Mezzasala. Arguto, il gioco in filigrana, che sovrappone, perfino nel linguaggio, il personaggio eccellente, che le Brigate Rosse dello spettacolo che la compagnia sta portando in scena, definiscono come quel “lui che un criminale comune non è, ma il criminale” con Mezzasala, che, nel gioco meta teatrale del dietro le quinte, similmente i quattro attori progettano di rapire e obbligare a vedere lo spettacolo come fosse “uno spettatore comune, lui che spettatore comune non è”. Certo un gioco, un divertissement per catturare, in controluce ai vizi e alle virtù di questi teatranti, i vizi e le virtù dell’italiano medio: marchettaro, sì, e, all’occorrenza, traffichino, ma poi anche capace di accendersi di brucianti altissimi ideali.

Eppure c’è ancora un altro livello, in questa narrazione. Portata in scena la prima volta nel 2009, da un allora circa trentacinquenne Rosario Lisma, questa drammaturgia dava occasione al giovane autore di sbeffeggiare le mode imperanti nel teatro contemporaneo per diventare testo quasi programmatico, invece, della sua scelta vocazionale pro naturalismo. Dalla performing art, all’istallazione, dal non sense a un teatro di ricerca forse un po’ troppo o un po’ troppo fasullamente all’avanguardia, dal recupero del dialetto per esprimere l’autenticità o, al contrario, l’incomunicabilità del mondo moderno, l’attonito Saverio/Lisma/regista ne approfitta per mostrarci, attraverso i suoi occhi sbigottiti, il prender corpo della riconferma della sua cifra stilistica; e, così, dopo averli messi alla prova, ciascuno secondo il proprio estro, li azzittisce, quei suoi compagni di palco, con una tirata su verità e teatro, che chiosa con parole rubate ad Eduardo: “Chi cerca lo stile, trova la morte; chi cerca la vita, trova lo stile”. Ma, soprattutto, poi ci pensa Mezzasala a coronare il coraggio di questa scelta pro Naturalismo; ed ecco che il comico gioco dell’ironia ce li mostra immediatamente supini e accomodanti di fronte alle parole del critico, quegli stessi compagni, che, fino a poco prima, avevano deriso la permalosità del regista.

Scenicamente tutto ciò è reso attraverso scenografie essenziali – come loro stessi ironizzano, passando in rassegna gli escamotage di produzione delle giovani squattrinate compagnie -, ma non si lesina un costante cambio di costumi, musiche – quelle di Gipo Gurrado – a sottolineare emotivamente gli stacchi dei cambio-scena, per lo più, e luci a restituire fondamentalmente i due piani: realtà e messa in scena. Ma, ovviamente, il teatro è soprattutto azione scenica: sul palco quattro attori – oltre a Lisma, Ugo Giacomazzi, Fabrizio Lombardo e Andrea Narsi – ciascuno a colorare il proprio personaggio con tinte, che si fanno evidenti nei cammei che ciascuno dedica alla messa in scena della propria idea di teatro. Assolutamente godibile anche il quadro in cui Gianni Quillico fa finalmente vivere davanti ai nostri occhi quel personaggio quasi fantastico ch’era oramai diventato il tanto nominato Mezzasala: e se quel che ne esce non è certo un bello spaccato d’umanità, è al contempo vero che la sua spaventosa meravigliosa debolezza non è da meno di quella di ciascuno dei quattro e, probabilmente, neppure di noi che, fra il serio e il faceto, il commosso, divertito e partecipato seguiamo e ci specchiamo nello spettacolo.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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