In “Répétition” Rambert prova a raccontarci la dolorosa verità della finzione

Non è un testo semplice, questo “Prova”, scritto e diretto da Pascal Rambert con Luca Lazzareschi, Anna Dalla Rosa, Giovanni Franzoni e Laura Marinoni, in scena al Piccolo Teatro di Milano fino al 10 aprile.

Non è un testo semplice perché parla della sconfitta di una generazione. Non è semplice perché lo fa scegliendo la collocazione forte di una prova di una compagnia di attori che si trova di fronte all’implosione della sua stessa struttura; non è semplice perché lo fa mischiando e mixando e ribaltando vita e teatro, verità e finzione scenica, ideali e opportunismo, in un crogiolo semantico, in cui si evoca la materia densa del senso filosofico per poi declinarlo nella liquidità di relazioni amorose vampiresche e parassitarie, giocate nell’idealità di una bellezza che ha smarrito i propri connotati etici per restare forse soltanto un disperato tentativo di sublimare il proprio abissale solipsismo. E’ un testo duro. E non si scappa.

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“Prova” di Pascal Rambert

Non è semplice. Eppure è un testo dalla poetica preziosa e centellinata, capace si irradiarsi in evocazioni dalla visionarietà tangibile per poi precipitare in una triviatà non meno concreta, ma mai gratuita. “Cos’è che ci disturba? La parola? La cosa? L’immagine?”, chiede, sfidante, una delle due attrici, dopo un esplicito riferimento a una pratica sessuale: “Le parole ci sono e io le uso”.

E’ una lunga litania, quasi una supplica laica, i cui misteri dolorosi sono quei nodi gordiani, in cui capita d’inciampare a tutti, prima o poi nella vita. Si parla della parola, che confonde ed equivoca, anziché svelare; della parola che copre, mistifica e occulta l’abisso, anziché aiutarci ad affrontarlo. E’ la vertigine di Montale del “Forse un mattino andando…”, che ci rende parossistici o muti, a seconda dei casi. Si parla della bellezza: di quella che abbiamo sotto gli occhi, ma non sempre riusciamo a vedere, così come di quella che è lo sgorgare della vita interiore. Si parla di passione, di pelle, di sangue, sesso e senso; si parla di teatro. Si parla di morte. Ma soprattutto si parla di vita, di verità e finzione, dei legami che ci uniscono, nonostante tutto, e di come se nell’estate della nostra giovinezza siamo tutti belli e sfrontati, arroganti e indomabili, poi forse la vita ci piega, fino a prostrarci, mostrandoci tutto il peggio che alberga in quei parassiti fedifraghi che tutti noi siamo; ma forse tutto questo non basta a farci capitolare, insegna il “messaggero del teatro occidentale”, che, come nella scena finale dell’ “Amleto”, arriva quando a terra non ci sono oramai che cadaveri e non gli resta che parlare un poco per poi tacere per sempre.
Nessuna verità rivelata, in fondo, che non abbiano già detto altri; ma la cosa davvero interessante è il modo con cui il drammaturgo Rambert dà corpo scenico a tutto ciò. Sceglie di farlo durante le prove di una compagnia d’attori. Ma Rambert è francese e “prova” lì si dice “répétition” (titolo originale della pièce).

Non è soltanto una questione linguistica: gli attori della compagnia, che il regista significativamente sceglie di portare in scena col loro nome reale, in effetti “ripetono”, in qualche modo, tutti la medesima scena. Ma la ripetono non in modo meccanico, bensì inverandola. Le stesse battute nella bocca dell’uno, in quella dell’altro non suonano esattamente alla stessa maniera e i dettagli si confondono, rimbalzando di ricordo in ricordo, e quel che per uno funziona, per l’altro no.

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“Prova” di Pascal Rambert

Ripetere non è il semplice “dire ancora una volta” per fortificarne la memoria; bensì: “re-petere”, “chiedere ancora”, dove “petere”, in latino, significava, in senso forte, “chiedere per avere” e non semplicemente “chiedere per sapere” – per quello si usava il verbo “quaerere”. Così questa “répétition” di fatto è davvero una giaculatoria: il teatro, chissà, ma forse più profondamente la vita, sono la madonna a cui la si rivolge.

Interessante pure l’uso dello spazio. Il grande tavolo da lavoro, attorno al quale chissà quante altre volte si sarà riunita la compagnia, è evidentemente decentrato su un lato: l’altro – da cui irrompe la prima delle attrici che terrà il suo monologo dando il là al medesimo modus anche per i compagni – è quell’altra parte del reale, di cui ciascuno parla a modo suo. E’ lì che ognuno evoca il proprio tavolo, ne accarezza i dettagli e ne ostenta la fisicità. E’ su quello che ciascuno getta la propria parte di verità e indugia nel recitare le battute di uno spettacolo, che si mescolano talmente con la vita, da stentare quasi a capire cosa sia finzione e cosa ricordo. Così via, l’uno dopo l’altro: ciascuno col suo monologo-fiume, che è come un piccolo trattato o forse solo l’abbozzo di un manuale di sopravvivenza o di resistenza. Ma lo spazio è anche sfondare la quarta parete verso una platea terribilmente vuota, quell’arena circolare che significativamente unisce attori e pubblico, al Piccolo Teatro Studio. E’ qui che si avventurano il personaggio “drammaturgo”, un Luca Lazzareschi sfrontato nel reclamare il suo cannibalismo amoroso quasi male necessario per adempiere alla sua missione di scrittore e donare quella verità, che curiosamente la gente cerca a teatro ed è disposta a pagare per vederla, e il personaggio “regista”, Giovanni Franzoni, di bianco vestito, a ricalcare la sua funzione di messaggero, quasi figura angelicata, ma coi piedi scalzi di chi li ha battuti per davvero, i percorsi di una reale militanza infra mondana. Non si accendono, le luci, durante le loro incursioni: le luci, fisse per tutto il tempo, ci dicono che forse non è necessario, questo coup de théatre, perché noi siamo talmente coinvolti, che va da sé.

Sicuramente una grande prova d’attore per Anna Dalla Rosa, Laura Marinoni, Luca Lazzareschi e Giovanni Franzoni – questo l’ordine d’entrata -, in cui ciascuno, cavalcando il differente temperamento del proprio personaggio, ci restituisce uno spaccato di alta professionalità e mestiere. Qualche dubbio forse solo sul registro monotonico eppure swingato della Della Rosa, il cui omonimo personaggio di donna forte, quella che getta sul tavolo la sfida dell’ “Ognuno per sé”, non sembra conoscere sfumature su cui modulare la pur dichiarata spigolosità e compiaciuta mancanza di arrotondamenti.

Piccolo Teatro Studio Melato
dal 1 al 10 aprile 2016

Prova

testo, regia e coreografia Pascal Rambert
con (in ordine di apparizione) Anna Della Rosa, Laura Marinoni, Luca Lazzareschi, Giovanni Franzoni
scene Daniel Jeanneteau
luci Yves Godin
produzione ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione

Francesca Romana Lino

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