In scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 13 al 24 gennaio – e poi, di nuovo, dal 3 al 15 maggio -, “Per strada”, drammaturgia di Francesco Brandi, pure in scena insieme a Francesco Sferrazza Papa, per la regia di Raphael Tobia Vogel.
La storia racconta dell’accidentale incontro di due ragazzi, Jack e Paul , durante una bufera. Se il primo è il prototipo dell’italiano poco avvezzo a gestire le criticità – fatica a montare le catene da neve e tutto per lui diventa specchio della sua precarietà esistenziale, prima ancora che economica e affettiva -, l’altro si presenta come il suo contraltare: pratico, come solo un ex boy scout sa esserlo, di buona famiglia, con un posto fisso nello studio legale del padre e alla vigilia delle nozze.
“Cosa vuoi di più dalla vita?”, verrebbe da chiedersi, parafrasando il tormentone pubblicitario di un noto brand di amari di qualche anno anno fa. Ed è proprio questa, la scintilla che innesca l’azione drammatica. A tutta prima i due sembrerebbero respingersi, ma nella modalità dialettica di chi avverta tutta la profonda distanza eppure al contempo la fascinazione di quel diverso, che altro non è se non una variabile di sé. Lo suggerisce bene, la scrittura, assegnando ad entrambi nomi inglesi e una simile e dichiaratamente inconsueta discendenza materna da Liverpool, per poi arricchirla con singolari sovrapposizioni come nella graduale messa a fuoco di un’immagine all’inizio raddoppiata quasi solo per un difetto visivo. Così l’incontro, tanto fortuito quanto indesiderato, si rivelerà essere per entrambi l’occasione di svelarsi, oggettivandosi anzitutto a se stessi, e confrontarsi in una modalità dialogica. Fino ad acquisire quella consapevolezza, che saprà condurli a esiti mai immaginati prima, sfocando nuovamente la sovrapposizione in un differente sdoppiamento.
Quasi un movimento da macchina da presa: una di quelle immagini da film d’essai, che così raccontano, talvolta, della noia o della vanitas vivendi, zoomando da un indefinito sfocato a un primo piano strettissimo a enfatizzare i dettagli. E non è un caso. Francesco Brandi lo abbiamo visto recitare sul piccolo come sul grande schermo – con Pupi Avati, Virzì, Nanni Moretti ed Ettore Scola, fra gli altri – e il regista Raphael Tobia Vogel, qui al debutto teatrale, si è fatto le ossa al cinema, dopo aver masticato le assi del palcoscenico per motivi del tutto autobiografici. Eppure questi “figli d’arte” – nipote di Silvio D’Orlando, il primo, e rampollo della regista Andrée Ruth Shammah, l’altro – esordiscono con un lavoro, che se strizza l’occhio ai loro percorsi formativi, certo non manca di competenze e originalità autonome.
Questa, la sensazione. Così i dialoghi fra i due protagonisti hanno spesso il taglio ironico e fulminante di certe serie televisive, specie nelle battute spesso sul filo del comico di Jack/Brandi.
Al “sermone” del perfettino Paul – interpretato da uno Sferrazza Papa dal registro più teatrale, ma non meno convincente, presenza non nuova, al Parenti, sotto la direzione della Shammah, oltre che di Silvia Giulia Mendola e Andrea Baracco, di recente -, che con tono solenne riporta il monito paterno sull’importanza dell’esperienza degli scout – insegna a “stare in gruppo […], ma anche a stare da soli”, quale antidoto a una noia, che non è da confondersi con la tristezza -, l’irriverente Jack smorza con un: “Ma chi è, tuo padre: Zarathustra?”, riportando immediatamente al registro colloquiale e quotidiano. Poi rincara a sua volta con una propria chicca paterna: “Invece il mio dice che l’intelligenza è come la quinta di reggiseno: quando ce l’hai, si vede subito…”. Inevitabile l’effetto esilarante. Eppure c’è del pensiero dietro a questo scambi di rimpalli: dall’occasione per riflettere su certe modalità esistenziali legate alla precarietà, a quel “Non tutto è oro, quel che luccica” – amara e ricorrente constatazione, che attraversa l’arco dei secoli da Esopo ai “Racconti di Canterbury” fino allo shakespeariano “Il Mercante di Venezia”. Si passa per la tematica della finzione sociale, del rapporto padre-figli e di quanto noi per primi, talvolta, siamo i più acerrimi nemici della nostra stessa felicità; o, ancora, per l’impatto di certi stereotipi o pregiudizi nell’approccio interpersonale.
La realizzazione scenica di tutto questo è affidata al Vogel, che mostra la sua formazione da cineasta, organizzando lo spazio a disposizione in modo da ottenerne un’ ottimizzazione visiva, anzitutto. Così tripartisce il profondo spazio a disposizione nel senso della profondità. Utilizza dei tulle, attraverso cui ricava spazi, che immediatamente acquisiscono una valenza anche simbolica, oltre che narrativa – semplificando: la zona mediana suggerisce essere quella dell’ordinarietà, in quella in primo piano succedono le cose drammaturgicamente più salienti e la più lontana rappresenta l’idealità, ma anche la convenzionalità, a cui si è costretti dal gioco delle parti di pirandelliana memoria. In più gli fanno buon gioco nel servirsene quali schermi, all’occorrenza, per proiettare quei dettagli, su cui il teatro, a differenza della cinepresa, non consente di fare focus. Certo: pure il teatro ha i suoi escamotages per sortire tali desiderate reazioni nel pubblico – dall’enfatizzazione dei movimenti, di cui è maestra proprio la tradizione italiana della Commedia dell’Arte, agli effetti di luce a pioggia. E però Vogel sa ricreare tutto un effetto ottico da scatola magica, che immediatamente porta in atmosfera, accompagnando un anche pubblico non per forza avvezzo al teatro in uno scenario perfettamente leggibile e fruibile da tutti.
...blogger per voyeristica necessità!
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