“Albania casa mia” è il monologo scritto e interpretato da Aleksandros Memetaj, per la regia di Giampiero Rappa, in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino a domenica 12 marzo 2017. Ma “Albania casa mia” è, ci racconta il giovane autore, anche il motto dispregiativo, con cui un certo Nord Est fa il verso a quella stessa manovalanza, a cui pure ha aperto le braccia, negli anni “80. Salvo poi stigmatizzarla: “Tornerà o torneranno i suoi amici”, fa dire al tipico cinquantenne populista, baffi impastati, denti gialli e in odor di spritz, bianchino o ombra: “Sentono odore di cibo… Torneranno e ci ruberanno il lavoro…”. Eppure, soprattutto, l‘Albania è il Paese d’origine – casa mia, appunto -, di questo poco più che venticinquenne, che ha saputo fare della propria esperienza di vita di straniero di seconda generazione un terreno d’incontro col pubblico.
Sarebbe riduttivo chiamarla solo autobiografia. Se i fatti sono certamente quelli tratti dal suo vissuto personale, quel che li rende interessanti è la capacità di una continua tensione dialettica fra il personale e il sociale, fra l’individuale e ciò che riguarda/coinvolge la polis, che fa di questo monologo una sorta di exemplum incastonato in una cornice strombata di più ampio respiro. Non mi riferisco, infatti, solo alla situazione socio-politica (il grande esodo del 1991, i 27mila albanesi, che si ammassano nel porto di Valona alla volta di Brindisi, descritti e tratteggiati, qui, con l’irruenza e la forza della massa di un Peliza Da volpedo, ma anche la disperata pulsione di una “Guernica”). In modo molto più discreto e centellinato, tutto ciò si vede già in quei racconti d’infanzia, che fin dai primi giochi e dalle dinamiche dell’asilo riescono ad infilzare temi cruciali quali identità, comunicazione, rapporti di potere, razzismo, fascinazione della parola…
Così quel che sorprende, in questo monologo, è il cambio di colore. Dopo un incipit da “le mie memorie” certamente interessante per la capacità, come si diceva, di andare ad esplicitare quello che non è soltanto un suo ricordo d’infanzia, sono gli stessi occhi e lo stesso pensiero ingenuo del bambino di sette anni ad accompagnarci nel viaggio di ritorno verso l’Albania. Ed è qui, che la drammaturgia scollina; quella nave che da Brindisi lo riporta a Valona non può non evocare la ben differente imbarcazione di fortuna con cui anche il padre, giusto sette anni prima, era scappato in Italia come verso un Eldorado magico. E non possono bastare più, gli occhi vivaci del ragazzino capace di guardare il mondo attraverso la fascinazione della parola. Gongolante per aver acchiappato il fuoco di Prometeo (“sapevamo dire le cose come gli altri e in un altro modo”, dice di sé e dei cuginetti: “Eravamo pittori delle parole… che cambiavano colore come e quando volevamo noi”) e geloso di custodirlo come fa il baro con l’asso di cuori, questo stesso guizzo fanciullesco lo consegna agli occhi non meno vivaci del padre. Una capriola, in effetti il doppio salto mortale nel cerchio infuocato di una storia tanto recente quanto ancora bruciante, ed è il giovane Fisico Matematico costretto a cercar fortuna in Italia, fortuitamente arrivato nel minuscolo paesino di Fiesso D’Artico, a diventare il narratore privilegiato. Eppure non cambia il piglio: candore ed autoironia, forza, fierezza e determinazione, ma sempre stemperate in una modalità affabulatoria e accogliente dalla spiccata densità evocativa ed empatica restano le cifre anche del suo narrare.
E mentre sciorina parole preziose, a tratti – a tratti prosaiche, a tratti poetiche -, in scena l’attore che di sé dice: “Raccoglievo parole”, parole ne trova per spiegare questo mondo piccolo non solo per il decentramento della sua ubicazione, eppure grande come appare l’universo, a chi lo guardi con gli occhi di una passione divorante. Parole ne trova per evocare i baffuti energumeni della nave, così come i figuri alienati, a cui guarda con quasi bonaria compassione; parole per tratteggiare i luoghi e gli edifici, che sembrano animarsi come in un racconto fatato; parole capaci di scivolare veloci, di accendersi, placarsi e poi impennarsi o restare sospese, quasi affogandoci, come quando si sta nel mezzo, che “è l’istante, in cui si è completamente vulnerabili”, ci spiega. Ma, soprattutto, le sue parole sanno incarnarsi in una mimica e plasticità attorale e in una plurivocalità, tali da farcene scordare, ammaliati dal racconto, sì, ma ipnotizzati da una prossemica dalla capacità evocativa prepotente. Non meno importante certo la direzione registica di Giampiero Rappa, che riesce a dare efficacia al testo con pochissimi accorgimenti soltanto. L’attore, scalzo, nella sua tenuta da agone/uomo di tutti i giorni; un paio di tagli di luci e cambio di colore azzeccati nei momenti topici della narrazione; la sagoma dell’Albania tracciata su un tappetino/zerbino, che dice quasi “preghiera”, oltre che “casa”, pur nel suo essere volutamente asfittico nel contenere la smania di mondo, che quel Paese, in quegli anni, certo non riusciva a soddisfare. E poi il disvelamento, quasi al rallentatore, del padre, che, terga al pubblico nel momento intimo dell’incontro col figlio neonato, poi si volge tenendo fra le braccia “il frutto del suo sudore” con un effetto meraviglia disarmante.
Certo un lavoro giovane e di giovani, ma che meraviglia per l’efficacia evocativa attorale, oltre che per la scelta attenta e costante di parole dalla forza poetica spiazzante. E poi un testo politico nel senso più alto e nobile, che, parlando di contemporaneità, mostra come, in mondo così globalizzato, non sia più possibile restare a guardarsi l’ombelico delle proprie prouderie personali.
TEATRO FRANCO PARENTI
dal 7 al 12 marzo 2017
“ALBANIA CASA MIA”
“Storia di due destini incrociati”
di e con Aleksandros Memetaj
regia Giampiero Rappa
aiuto regia Alberto Basaluzzo
Produzione Argot
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