In scena per il lungo periodo fra il 23 gennaio e l’11 marzo 2018, “Freud o l’interpretazione dei sogni” di Stefano Massini, adattamento e regia di Federico Tiezzi coadiuvato da Fabrizio Sinisi per la parte testuale, è la produzione di punta del Piccolo Teatro di Milano per questa stagione.
Intanto perché chi, ai nostri giorni, non conosce o non frequenta i temi della psicanalisi? Che sia attraverso i più o meno snelli canali del web e del fai-da-te on line o attraverso la strategia più articolata dello studio di un accreditato professionista, ormai occuparsi di psicologia è diventato quasi un diktat. In un mondo così liquido e al tempo stesso così fortemente performativo, del resto, nessuno può più permettersi di non essere all’altezza, mancare un obbiettivo o anche solo perdere il ritmo. Così, venuti meno quelli che, nel bene o nel male, erano i punti di riferimento e le guide tradizionali – Chiesa, partito, famiglia -, oggi è quasi naturale rivolgersi a questa figura mediale e radiale, che è lo psicologo.
Già, ma chi e cos’è lo psicoterapeuta? In fondo sono queste, le domande da cui muove e a cui cerca di dare risposta lo spettacolo. Poderosa opera di traduzione scenica del massiccio “L’interpretatore dei sogni” – biografia dell’autore de “L’interpretazione dei sogni”, che Massini liberamente romanza nell’arco di sette densissimi anni –, quel che si prefigge non è tanto tratteggiare le tappe che condussero il brillante scienziato a quella rivoluzione copernicana, da cui la cultura contemporanea non avrebbe più potuto far ritorno; preferisce parlarci dell’uomo Sigmund Freud, piuttosto: dei suoi conflitti, della curiosità e degli inciampi, che, primo fra tutti, chiamarono in causa proprio lui. Non sono infatti casuali né quel sogno iniziale, in cui si parla di lucertole costrette a scivolare nella neve e che lo stesso Freud sfama, sì, ma non prima di averle obbligate ad ascoltare i suoi ostentati nomi latini – queste, le accusa del paziente Ludwig R, in un curioso gioco di ribaltamento paziente/analista -, e neppure lo è la strana assonanza biografica fra l’inappuntabile Oskar K, marito della paziente Elga K, schiacciata dall’autorevole figura del commerciante di stoffe in maniera del tutto simile a quanto avvenne al giovane Sigmund, in balia del padre venditore di lane. Cartine di tornasole, questi due casi, a testimonianza di quanto ne andasse di sé, in questa nuova disciplina medica, che se, da una parte, lo esponeva in modo disarmante allo scetticismo dei colleghi, non di meno, dall’altra, lo rendeva vulnerabile anche alla messa in discussione da parte dei pazienti – con termine tecnico si chiamano resistenze, ma, questo, Freud non poteva ancora saperlo.
Quel che ne sarebbe dovuto venir fuori è lo spaccato di un essere umano; fin troppo umano, verrebbe da dire, rubando le parole a Nietzsche, morto proprio in quel 1900, in cui, con felice intuizione, il medico viennese di poco post datava il suo Die Traumdeutung. Ma, pur interprete di un’articolata e impegnativa prova da protagonista, Fabrizio Gifuni, dalla mimica capace d’incantare, non raggiunge, invece, con questa recitazione sempre un po’ troppo impostata e accademica, la verità, la fragilità e il pathos dell’uomo Sigmund. Ce li racconta a parole, sì, e si denuda – non solo in senso figurato – per significarci la sua vulnerabilità di fronte a questo lavorio, che non è solo un lavoro, ma un tarlo – nevrotico, quasi, e compulsivo -; eppure, nonostante, un climax, che, specie nel secondo atto vira sempre più verso l’umanizzazione/disvelamento dell’uomo, non riesce a raggiungere la grazia dello svelato, del risolto. Chissà, forse per dirci che davvero risolto Freud non lo fu mai del tutto.
Complice anche una più favorevole partitura drammaturgica, in stato di grazia, invece, sono i personaggi dei pazienti: tutti. Tratteggiati con toni grotteschi, deliri più o meno surreali e quei volti bianchi che dicono subito la lunarietà del mimo e fanno tanto Brecht – con l’inevitabilmente corrosivo portato di denuncia dei costumi sociali -, si avvicendano nello studio e nelle intuizioni/ riflessioni cliniche del protagonista a metà fra spettri, fantasmi, cadaveri. Tali, sono, infatti, quando si rivolgono a lui: esseri ormai privi di vita, annientati dalla paura e, più spesso, divorati da quei dilanianti sensi di colpa – altra intuizione fondativa -, che sembrano essere inevitabili cataboliti di quella società maschilista e padrona. La scelta degli attori da assegnare ai singoli ruoli è spesso azzeccatissima; oltre alla superba Elena Ghiaurov, straordinaria interprete di quella Tessa W dagli abiti alla Klimt, le cui resistenze spinsero Freud a inaugurare il metodo dell’ipnosi e Sandra Toffolatti, meno istrionica, nei panni della più impropria – così la definisce il medico nei suoi diari – Elga K, di efficace e godibile effetto anche gli altri cammei:
Giovanni Franzoni è un Wilhelm T il cui senso di colpa gli accende il viso coi colori più lividi e improbabili, Valentina Picello/Greta S, pare davvero annegare in quegli occhi/casse d’acqua, che suggerirono a Freud l’intuizione che fossero i bisogni, ciò che stava alla base dei sogni; non di meno le altre figure femminili, Clarissa F/Sandra Gigli, svolazzante moglie del paziente Solomon F/Michele Maccagno, Elfriede H/Bruna Rossi, col suo pesante senso di colpa per un sogno inconfessabile, ma dalla risoluzione felice e liberatoria e poi quella Marta/Debora Zunin, moglie di Freud, che ben sa giocare e modulare i differenti registri dentro e fuori dal sogno. Completano il cast i due medici colleghi dello psicanalista, Dottor Krauss/Nicola Ciaffoni e Dottor Edgard/Stefano Scherini, ma soprattutto Ludwig R/Marco Foschi, il paziente del gioco dell’inversione dei ruoli, Hernest D/David Meden, dal breve ma intenso cammeo sul sogno che avvampa, che introducela questione della censura e il già citato Oskar K/Umberto Ceriani, il cui rigore contribuì ad aprire alla questione del Super Ego.
Ma quel che maggiormente affascina, in questo spettacolo, fatta salva, lo ripetiamo, la capacità di muoversi fra i topoi della nascente psicanalisi, porgendoceli come avvincenti inaspettate intuizioni di un non-metodo capace di trarle solo dall’incuriosito, attento, metodico e caparbio contatto empatico con l’altro, è il suggestivo, lineare, efficacissimo e ottimamente curato – fin nel dettaglio – apparato scenico. Non è solo la scenografia di Marco Rossi a ipnotizzare con la suggestione dei suoi due, nella sostanza, gli ambienti: quello total black, che si fa studio dalle tante porte, ma poi anche clinica e quello color verde-prato-di.casa punteggiato dal bianco della tavola imbandita, della poltrona indiana su cui siede Marta e della stessa Marta, bianca di un candore onirico e abbagliante come solo Tessa W nella scena derealizzante dell’ipnosi. Anche i costumi di Gianluca Sbicca attirano l’attenzione: curiosi, a volte, nelle acconciature e tolette delle signore, preziosi e curati fin nel dettaglio dei guanti già profeticamente scarlatti dell’austero Oskar K o nel risvolto del cappotto della moglie Elga, del medesimo vermiglio, quasi a ribadir l’indissolubilità dei due, così com’è, nella fantasie delle stoffe, per Clarissa e Salomon F. Ed idem dicesi per le luci di Gianni Paolini – nitide a disegnare i profondità e volumi fino al dettaglio di led, che incorniciando le profondità della scena, sembrano allude alla molteplicità dei livelli di lettura -, i video di Luca Brinchi e Daniele Spanò – sempre ragionati come quello, iniziale, del ballo della Vienna Felix, sì, ma segnato da linee di fuga che spingono già là, a quella figura defilata e introflessa, citazione quasi raffaelliana de “Il pensatore” di Rodin – e una musica, che torna, a ondate, con la sua portata onirica e di sospensione in quello scorrere lentissimo, dei coccodrilli/caimani o forse solo le lucertole, che Freud attira e in qualche modo sfama, sì, ma: “A quale prezzo?”
Di sicuro un progetto eccellente – per fattura, idee e restituzione scenica – anche se forse pecca di una non sempre incisiva capacità di portarci fin nel fondo della densissima umanità di quell’ interpretatore di sogni, che definì la sua teoria onirica come una forma estremamente elaborata di drammaturgia. Ed eccola, l’altra ragione per cui ha senso portare la psicanalisi a teatro: provare a farlo insieme, quel tuffo del video iniziale, a cui segue la domanda: “Se tutto ha un inizio, da dove vengono i sogni?” E siamo un po’ tutti noi, quel Freud proiettato in acqua come ciascuno di noi in quell’esistenza nella quale passiamo il tempo a imparare a nuotare.
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