“Leggera, leggera: quasi una bagatella…”: questa è un po’ la sensazione di fondo, all’uscita dal Teatro Verdi, dove il 18 e 19 dicembre è stato in scena “The Peinter – The scream of the sunflower”. Ma poi ti accorgi che di ‘lieve’, in fondo, c’era solo il codice scelto: e la capacità di dire, pur senza sferrar l’affondo. Forse perché da questo “The painter”, inserito nel più articolato programma della celebrazione giubilare del centocinquantesimo dalla nascita di Eduard Munch, ci si aspettava qualcosa di più solenne e pomposo, data anche la partnership con organismi prestigiosi quali la Reale Ambasciata di Norvegia, il Museo del Novecento e la Fondazione Cineteca Italiana/Spazio Oberdan. Sarà stata, forse, l’insistenza sull’idea interpretativa di un Munch in qualche modo capace di captare e far raggrumare attorno alla propria opera quel malessere aleggiante in Europa durante la pur Belle Epoque – cioé: fra la fine della guerra franco-prussiana e le due guerre mondiali -; sarà stato il disquisire di una ‘materia oscura’, catalizzata nella poetica espressiva del poeta, ma declinata, a livello d’inconscio collettivo, in quegli stessi anni, anche in seno ad altri ambiti – dal voto a suffragio universale ai movimenti socialisti, dalle ideologie alla psicanalisi, dalla fisica quantistica all’ occultismo -; ma certo è che questa cifra esegetica, ribadita sia nella conferenza stampa e poi ancora nella lezione-conferenza del politologo Prof. Giorgio Galli appena prima dello spettacolo, ci aveva predisposto a qualcosa di più clamoroso e destabilizzante, capace magari di gettar luce su quegli spaccati d’angoscia, che immediatamente si associano al Munch, che per molti resta fondamentalmente l’autore de “L’urlo”.
E, invece, nulla di tutto questo, in “The Painter”, che giustamente coglie la portata mediatica de “L’urlo”: non a caso la puntata televisiva, che immagina un mai accaduto incontro fra Munch e Van Gogh s’ intitola: “The scream of the sunflower”; ma poi sembra usarla, questa suggestione, col solo intento di creare un riferimento allusivo immediato ai due pittori. E, allora, perché scegliere proprio questo come spettacolo celebrativo di un personaggio che, in scena, ha il medesimo peso/presenza del – di fatto – suo coprotagonista?
Queste un po’ le perplessità di fondo; accantonate le quali, resta da parlare della pièce.
Si tratta di un pezzo di teatro di figura – ideazione di Ulrike Quade, Jo Strømgren, Marc Becker, per la regia di Jo Strømgren e drammaturgia di Marc Becker -: con pupazzi a grandezza naturale – e di pregiata e realistica fattura -, mossi a spalla dalle due performers Meike van den Akker e Cat Smits, che si esibiscono pure come attrici, duettando coi manichini di cui spesso interpretano ruoli ancillari. Il ritmo è concitato – come pure lo scorrere dei sopratitoli: essendo, il recitato, in una pur ‘not difficult’ lingua inglese – ed immagina un surreale show televisivo – di quelli alla “David Letterman”, per intenderci… Al grido di: “Radikal!”, il conduttore intrattiene il suo pubblico, intervistando i personaggi più improbabili. Ma, stavolta, qualcosa va storto; e, falsando qualsiasi scaletta ed ordine prestabilito, irrompe un vetusto Eduard Munch – con tanto di deambulatore… – quando invece avrebbe dovuto entrare in scena Van Gogh – il tema della serata era l’arte -: a nulla possono i ‘contributi multimediali’ più e più volte lanciati dall’anchorman nel vano sforzo di ristabilire un ordine, né il tentativo di salvare il salvabile, coinvolgendo il gallerista/critico d’arte, altro ospite della serata. Di fatto il tutto degenera: e, così, ci troviamo a contatto con un Van Gogh, che ringhia – ad icastizzarne l’indole misantropica -, tormentato da improvvisi intollerabili acufeni – la sua biografia c’insegna che furono proprio questi, probabilmente, all’origine dell’automutilazione di un orecchio –, che, benché di fatto lo zittiscono, non gli impediscono comunque di rivendicare il proprio diritto alla felicità – “Sono un uomo anch’io…”, dice, ad un certo punto. Non diversamente Munch – nella doppia versione ‘vecchio’ e ‘giovane’ -: che pretende ‘compensi’ per la sua arte, si atterrisce per le recensioni che non siano di consenso e si fregia di essere nato per dipingere: ma non in modo ‘decorativo’, bensì ‘paradiso e inferno’; a cui fa da controcanto il vangoghiano: “Sono un pittore e dipingerò […], ma pene e sofferenze saranno i miei colori”.
Dunque una specularità, quella fra i due artisti: ugualmente geniali – “I tuoi quadri sono affascinanti: dicono della vita” è il tributo del giovane Munch, in questo manacato incontro – incompresi – consapevoli, entrambi, che “The Fame” ci sarebbe stata: ‘after’, però… – e bistrattati – dice Van Gogh: “Se ti trattano sempre come un lunatico, finisci per diventarlo”: considerazione tanto lapalissiana, quanto ben riproducente la forma mentis paranoide. Questa specularità li vede uniti nell’antitesi contro il mondo – fatto di ragazzini che tirano sassate e di donne-vampiro, che temono possano ridurli in cenere – e contro quella business class, che li aveva vampirizzati, liquidandone l’arte in mero fatto pecuniario. E così non meraviglia che il gallerista li preferisca morti – “Meglio se suicidi…”, in quanto decisamente più quotati – e non tolleri che possano avere un proprio ‘pensiero’: dovrebbero, invece, tributar la dovuta gratitudine all’opera di preservazione del mercante d’arte, facendo proprio il nietzscheano monito: “Amo coloro che amano propria opera e son pronti a morirne sotto il di lei peso” -e, anche qui: Nietzsche certo non è un riferimento a caso, se vogliamo lasciarci suggestionare dall’idea di un’ ‘energia oscura’, che solo la superiore sensibilità del genio sa captare anzitempo…
Qual è, la morale della favola? Che per l’artista ‘fare arte’ è una vocazione ineludibile – un bisogno vitale, quasi –: altro dall’ ‘imbellettare’ la realtà, al contrario, semmai, svelarla nella sua natura scomoda ed angosciosa – questo il senso del grido del girasole –; e che, pur sapendo che non vedrà mai riconscersi quel tributo che sente di meritare, le sue opere/figlie immortali ne veicoleranno il messaggio attraverso i secoli e questo riesce a ripagarli di quella vita lontana dalla gente comune e dalle comuni consolazioni, nonostante sembri un insostenibile tributo alla leggerezza. Per converso, per il collezionista – e per il suo conclave – l’ ‘arte’ è solo un cioccolatino con cui addolcire le tristezze/brutture della vita: una bagatelle leggera leggera, appunto. Due teorizzazioni antinomiche, dunque, in questo gioco al massacro, da cui, ridendo, nessuno esce vivo.
Ecco: forse mi sarebbe piaciuto che si fosse riuscito a far passare tutto questo con quell’incisività graffiante, che pur appartiene ad un certo filone di puppet e che questo pur pregevole lavoro – ci sono quadri dalla poetica registica illuminante – fosse stato proposto in un’occasione differente. Nessuna celebrazione precipua di Munch, qui: solo qualche riferimento biografico allo stesso modo che per Van Gogh, del resto. Ciononostante, un lavoro ben fatto, ricco di spunti e di idee registiche suggestive.
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