Ragazzi, i “Paladini” di Koreja al No’hma!

A distanza di sette anni dal Premio EOLO AWARDS come Miglior Spettacolo e dal Premio Associazione Nazionale Critici del Teatro, “Paladini di Francia” di Cantieri Teatrali Koreja ha fatto tappa per soli due giorni a Milano. Lo spazio ospitante è quel No’hma, sito alle spalle dello storico polo universitario scientifico di piazza Leonardo Da Vinci, in cui oramai da anni si tiene il Premio Internazionale “Il Teatro Nudo”. Una micro rassegna, piccola solo per la durata delle teniture, di mercoledì e giovedì, ma grande sia per la qualità delle scelte artistiche, che per la gratuità degli eventi, che propone quel che difficilmente approda nelle altre pur numerosissime sale milanesi. Un teatro spesso “artigianale”, termine col quale, lungi dallo sminuire la portata artistica delle proposte, s’intende invece sottolineare quell’amore attento e prezioso e quella dedizione laboratoriale, che fanno la differenza.

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In questo contesto, si diceva, mercoledì 18 e giovedì 19 maggio è stato ospitato “Paladini di Francia” di Francesco Niccolini, regia di Enzo Toma.  Ispirato alla più tradizionale del racconto dei “pupi”, rievoca la storia di Orlando, Rolando, Astolfo, Angelica, Bradamente e gli tutti gli altri. Si agitano, marionette sconnesse, fra furie d’amore, eccessi di guerra e altri casi umani; si appassionano, s’illudono e restano delusi; si sfidano a singolar tenzone, perdono il senno e poi lo recuperano sulla luna fino alla disfatta di Roncisvalle, quando resteranno lì, gli occhi vuoti e spalancati contro il cielo, a fissare le nuvole, riverberandoci il quesito del: “Cui profuit?” (“A cosa è servito?”). “D’amore, morte e altre sciocchezze”, verrebbe da chiosare con Guccini, ma il Leitmotiv è quel: “Che cosa sono le nuvole?”, con cui Modugno stesso compare nel quarto quadro di “Capriccio all’italiana” di Pier Paolo Pasolini. E, come nel corto pasoliniano, la vicenda qui è raccontata da attori/marionette: Francesco Cortese, Carlo Durante, Anna Chiara Del Grosso ed Emanuela Pisicchio, a scivolare dentro e fuori agli undici carapaci/armature, animando i personaggi di questa “chanson de geste”.
Ma la cosa davvero particolare è il modo con cui tutto ciò è restituito.

PALAPensato per un pubblico di adolescenti – “dagli 11 ai 15 anni”, l’indicazione originaria -, la scenografia sceglie di suddividere lo spazio in modo didascalico, ma efficace: ai lati, le due rastrelliere ospitanti questi pupi/corazze a grandezza naturale via via animati e introdotti dall’attore che gli dà vita e parola, nella parte posteriore del palco una cornice di teatrino, al di là della quale si svolgono i “fatti d’arme”, per lo più, mentre in proscenio si agitano i casi amorosi e umani dei protagonisti. E poi la voce del “deus ex machina”, quel Carlo Magno talmente ipostatizzato e lontano dall’umano patire, da essere ridotto a una sola voce fuori campo, mentre nella penombra del tempo sospeso al di là del tempo della rappresentazione, il puparo. Allestisce, prima, e a smonta, poi. Curvo per la stanchezza, umile nella figura, è lui che incarna tutta la struggente poeticità di un lavoro, che se è meraviglia e privilegio, poi è pure fatica, dedizione e consacrazione; e dice “passato” di contro a un mondo, che, invece, sembra aver voglia solo di cose “moderne”, prima ancora che “nuove”.

Ecco, è in questo, lo struggente spirito pasoliniano. Se lì i “pupi” umani avevano ancora tutta la sontuosa mollezza delle marionette dei Fratelli Colla, pur sgualcita dal tempo e svilita dalla denuncia di un mondo che non sa che mandarli al macero, qui, invece, riacquistano la sferragliante rigidità degli scintillanti fantocci, che si battevano nelle piazze di paese. “Spada io, spada tu”, a ricordare quanto sia becero il comportamento di chi non conosca altre risposte oltre alla violenza. Poi, però a contrastare con quest’apparente durezza, un linguaggio arguto e in rima baciata, che tacitamente pesca, ma a piene mani, dal repertorio dei classici. Il Boiardo, sì, e l’Ariosto, ma poi anche Celati e Calvino e il Tolstoj di “Guerra e pace”, il “Cyrano de Bergerac” di Rostand e lo Shakespeare di “Amleto”, “Riccardo III”, “Macbeth”. Un mix di lingue e linguaggi quasi a voler abituare le giovani orecchie a una parola alta, ma non per questo noiosa; e tipizzazioni segniche, in scene e costumi, per parlarci in fondo di quel che siamo noi, che restiamo a guardar correre le nuvole. “Vanno, vengono, ritornano…”, l’incipit è quello di De André, ma da quell’altoparlante ossidato e gracchiante che campeggia a fondo palco, affiora tutto la struggente amarezza di un modo di antieroi, raffazzonati e sconnessi, con colapasta bucati per copricapi e coperchi di pentole che nessuno usa più per corazza; e poi forchette e cucchiai, al posto delle maglie di ferro e residui di passa verdure o scopette di saggina ad adornare gl’ improbabili elmi. E gli attori, che, alla dovuta rigidità dei movimenti e a volti cristallizzati ed esterrefatti, oppongono una modulazione quasi cantata nello sciorinare dei versi, sanno restituirci dei pupi meravigliosi e surreali, ironici, divertenti e misurati, senza mai scadere nel macchiettistico.

Francesca Romana Lino

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novembre, 2024

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