Simbolismo nitido ed essenziale poesia negli Occhisulmondo di Amleto

“Che gran teatro è il mondo!”, verrebbe da dire, in alcuni momenti, parafrasando Shakespeare; e puntualmente capita che qualcuno lo prenda in parola e provi a trasferire sul palco la vita, che gioca a portare in scena la rappresentazione di se stessa. In questi ultimi giorni, ad esempio, questo doppio salto carpiato lo si è visto fare in “Un Principe” della compagnia perugina Occhisulmondo a MTM Manifatture teatrali Milanesi (al Teatro Litta fino a domenica 19 novembre 2017). 

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Il principe di cui si parla in “Un principe” è il principe per antonomasia: non quello che di nome fa Azzurro, ma il principe Amleto. Chiamato ad esserlo contro ogni vocazione, non solo ne rifugge l’incarico – verrebbe in mente quel Celestino Quinto del gran rifiuto, che chissà se fu davvero un atto di viltà… –, ma, da vero princeps ideale – più ancora che reale nell’accezione politica del termine -, ne svela le macchinazioni e ne castiga i costumi. Si spinge fino al punto di non ritorno:  un nichilismo, che grida all’annientamento totale e catartico eppure che, per in qualche modo redimersi, sembra affidarla all’astuzia della memoria, la trasmissione di quel senso, che, nonostante tutto, ancora c’è. Così se al celeberrimo: “Essere o non essere” fa da controcanto un forse provocatorio: “Tutto qui”, è nella pregnanza lirica e visiva dell’ultimo gruppo scultoreo Amleto/Orazio, che è affidato il senso e il bandolo di quel tutto. Illuminati dallo stesso raggio di luce bluastra, che altrove aveva significato il fantasma di Amleto padre – e, quindi, dell’investitura regale, ma anche della chiamata alla vendetta –, i due davvero simboleggiano l’evidenza di due coetanei, sì, ma appartenenti a età e mentalità decisamente distanti. Fin dai costumi: quello di Amleto è l’ennesima variante di un gioco cromatico, in cui il rosso – passione ideale o lussuriosa, attaccamento al potere, vendetta o ira, a seconda dei personaggi –  la fa ancora da padrone, mentre Orazio è il solo a vestire in un bianco e nero quasi anonimo, ma che tanto ricorda l’iconografia classica dello stesso Shakespeare, quindi del narratore, del testimone e del depositario della memoria come anche dell’uomo moderno, liberato dai vincoli delle leggi tribali dei clan e capace, invece, di autodeterminarsi.

Ha il dono prezioso della sintesi, questa messa in scena di Occhisulmondo; va nella direzione dell’essenzialità. Risulta efficace nei tagli, sia del testo – shakespeariano, a cui aggiunge, direttamente nell’orecchio, giusto poche efficacissime gocce di quel “veleno” sottile che è la satira -, che delle caravaggesche luci, a illuminare, sì, ma, curiosamente, anche a ignorare, come nella scena del duello Amleto/Laerte: e se, pur combattuta in punta di proscenio, inaspettatamente resta in ombra, la sfida fra i due, è perché possa risultare illuminante, l’illuminata pioggia di micro azioni, al rallenty, che scompaginandolo, rivelano le reali tensioni del dramma; analogamente avviene nella ricostruzione della scena della commedia dei teatranti, dove il regista sceglie di rendere Amleto protagonista integrale, alle spalle, e non solo metaforicamente, della corte accomodata ma messa in ombra sul proscenio e di cui svela, in piena luce, le intime inconfessabili reazioni alla mimesi concordata nella scrittura shakesperiana. E non c’è sintesi migliore che, per sua stessa natura, quella della poesia: questo, infatti, è uno spettacolo lirico, di quelli che, pur concedendosi licenze di trasposizione, shakesperiani giochi di parole. doppi sensi e affondi, usa la magia della narrazione e l’artificio di un teatro nel teatro. Comincia con un canonicissimo: “C’era una volta…”, la vocina, stridula e nasale – un po’ alla Carmelo Bene – è quella di Orazio; e immediatamente svela i segni del teatrino. Gli attori, infatti, i visi resi anonimi da maschere e mezze maschere neutre, sono vestiti, truccati, agghindati e si muovono come marionette. Colorati e surreali, ma senza enfasi – pur al netto di registri volutamente sopra alle righe, movimenti amplificati ad arte e falsetti dal retrogusto grottesco -, seguono le direttive cartesiane ed essenziali del teatro di figura. Giocano nelle due sezioni ideali di proscenio e fondo palco – dove, perlopiù nelle scene che non li vedono protagonisti, siedono immobili come marionette nelle rastrelliere -; ma è a centro palco che danno vita a quelli che ci vengono così additati come i passaggi salienti.
Anche questo è scelta, messaggio, opinione, intento e regia.

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Pochi, ma essenziali, gli oggetti di scena: la lettera-dono di Amleto per Ofelia; la corona-cortoon del protagonista, che, diversamente da quella, simil realistica, di Claudio, continuamente viene messa, tolta, ribaltata e, alla fine, stracciata, senza trovar mai pace; e poi quel mappamondo-enorme palloncino, che, da tantalico supplizio per Amleto, si trasforma invece, per la singolare figura clownistico-mitologica del duo Rosenkranz/Guildenstern, in un oggetto del desiderio da cui non separarsi in nessun caso. Così, mentre interagiscono in questo teatrino ideale – lo suggerisce anche, in prossimità del fondale, quella corniceelemento architettonico teatrale, qui non a caso scura come nere sono le quinte -, di questo principe ci raccontano la storia, lei sì, essenziale, leggera, scarnificata e surreale proprio come l’Ofelia/ballerina spettrale, che fin da subito commuove e incanta per la sua leggiadra aurea di morte.

Uno spettacolo che far venir voglia di andare a teatro: quello poetico, che sa d’infanzia, ma che sa anche accompagnarci per mano verso tematiche alte e curati ferri del mestiere; quello in cui, abbassate le difese del registro realista, possiamo incontrare le nuove generazione nel confronto di tematiche sempiterne e universali.

Francesca Romana Lino

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