Il teatro fuori dai teatri. Il contributo di Elena Bucci a Maschere del presente

A pochi giorni dalla conclusione dell’incontro Maschere del presente: il teatro popolare tra storia e scenari futuri realizzato all’interno del festival Teatro in Campo a Venezia (incontro a cura di Michele Modesto Casarin, Manuela Massimi, Simone Pacini ed Emanuele Pasqualini), pubblico il contributo integrale inviato da Elena Bucci (invitata insieme a Marco Sgrosso ma impossibilitata a raggiungere Venezia) e letto in Campiello Pisani da Meredith Airò Farulla.

“Il teatro fuori dai teatri” di Elena Bucci

Cari amici, saluto con gratitudine e stima tutti coloro che si sono ritrovati in nome di “un’arte che fa riflettere, che diverte e smuove, portando il teatro fuori dai confini dell’élite e restituendolo al suo ruolo originario: essere specchio critico e affettuoso della società e strumento potente di coesione e cambiamento.”

Nella mia esperienza di attrice, autrice, regista, creatrice di compagnie, gruppi, luoghi di incrocio di arti e mestieri, da sola, con la mia compagnia, con tante e tanti compagni di strada, mi sono ritrovata sempre vicina a questi pensieri, a questa visione del teatro.

Ho sempre pensato e agito come se il teatro dovesse essere popolare: aperto a tutti, libero, viaggiante, catalizzatore di visioni, comunità, etnie, idee politiche, censi, lingue, culture diverse.

Cercherò di esplorare alcuni temi che ci rendono particolarmente vicini alla compagnia festeggiata: l’apertura verso ogni tipo di pubblico e di spazio, l’uso della maschera come strumento di conoscenza e trasformazione, il sentimento di essere parte delle comunità e della storia, il desiderio di essere stanziali e nomadi allo stesso tempo, a casa e in viaggio, mai arrivati alla meta.

Sono nata in una famiglia contadina, in un paese dove tutto accadeva in parrocchia e proprio lì ho trovato il teatro, che mi ha immediatamente conquistato. Scoprivo come letteratura, musica, danza, potessero mescolarsi sulla scena per essere vissute insieme ad altri, che mi si rivelavano ad ogni incontro diversi, misteriosi, inquietanti, divertenti. Il mondo era infinito, il tempo era infinito, e anche le persone.

Cominciai a correre, nella nebbia e nel buio della mia ignoranza, in cerca di luoghi e persone che mi avrebbero potuto fare crescere. No, non sarei stata la studentessa a pieni voti che promettevo di essere, non più.

E in più, la mia passione per la scrittura trovava nella scena la sua destinazione naturale. Se non mi sono persa nelle mie fantasticherie allontanandomi sempre di più dalla realtà è stato grazie al teatro, dove il sogno più ardito e la più cruda concretezza si intrecciano in ogni momento. 

Per me il teatro è sempre stato un abbraccio verso tutto e tutti, una via per superare l’egoismo e i limiti individuali, per attingere ad un’energia che trascende l’io, per trasmettere l’empatia verso il mondo che la timidezza e la diffidenza tengono a freno. I grandi che ho avuto la fortuna di incontrare mi hanno trasmesso gli strumenti per incamminarmi proprio su questa strada. 

Scrive Leo de Berardinis nel suo celeberrimo ‘Per un teatro nazionale di ricerca’: 

Da anni parlo di teatro popolare e di ricerca. Ma bisogna intendersi. Teatro popolare significa elevare e non abbassare la forza e l’emozione poetica. Popolare è il Teatro greco. Popolari sono Shakespeare e Mozart. Il pubblico deve ritrovarvi la bellezza, averne nostalgia quando ne esce, e così rivendicarla nella vita, nella società.

La ricerca è un andare oltre la routine e le incrostazioni che impediscono la creatività. Ma alla sperimentazione si arriva dopo un lavoro enorme: non è di certo lo spontaneismo in palcoscenico.
Attori si nasce ma si diventa. Le capacità naturali vanno rigorosamente affinate nella tecnica, poi bisogna far sparire la tecnica…”

Insieme a lui abbiamo sperimentato grandi teatri e cortili abbandonati, piccoli spazi dedicati alla ricerca e palcoscenici internazionali, sempre con la stessa determinazione a dare tutto quello che potevamo a chi partecipava con noi al rito del teatro.

Nel percorso di ricerca con lui ho incontrato le maschere di Stefano Perocco di Meduna e la loro meravigliosa capacità di liberare i mostri e le meraviglie nascosti chissà dove dentro di me da ave e avi sconosciuti. 

Sono certa che Stefano si ricorda bene come cercò disperatamente di sostituire la mia maschera della Morte ne Il ritorno di Scaramouche: per lui era un esperimento del quale non era nemmeno troppo contento, per Leo e me era la maschera perfetta e non ci fu nulla da fare. Quante, quante bautte ci portò senza riuscire a riportarsi via la mia!

Il rapporto del Teatro di Leo e di tutti noi con la maschera decretò una sorta di rivoluzione: ci conoscevamo da molti anni, ma sperimentammo uno straordinario clima di rinnovamento e stupore gli uni nei confronti degli altri, avevamo conosciuto molti tipi di pubblico, ma trovammo nuove relazioni, nuovi allacci e complicità.

Ad ogni spettacolo Leo ci incitava a questo processo, ma in questo caso fu particolarmente travolgente, al punto che il vortice energetico divenne talmente esplosivo da distruggere in parte la compagnia. Finiva un tempo e ne cominciava un altro.

L’ispirazione alla Commedia dell’arte era potente:  immaginavamo compagnie sempre in viaggio, libere e unite, capaci di assorbire e restituire la cultura del proprio tempo, di intercettare il sentimento della gente e trasformarlo in provocazione anche davanti ai principi e ai re, sognavamo geniali artiste e artisti capaci di creare personaggi e canovacci dal nulla e di portarli dalle piazze alle corti di tutto il mondo, abili nel dire, nel danzare, nel cantare, nel provocare. Di certo abbiamo idealizzato la realtà, ma questo processo, trasformato in azione quotidiana,  arricchiva il compito e l’impegno a diventare attori autori proprio come Leo ci incitava ad essere: corpo, anima, spirito, immaginazione sempre in allenamento, sempre in ascolto del presente, pensiero libero e sovversivo, capacità di moltiplicare i punti di vista e di scardinare pregiudizi, abitudini, soggezione al potere. Era difficile, si cadeva, si sbagliava e poi si riprovava.

Era cominciato intanto il mio cammino di autrice e regista e con Marco Sgrosso avevamo creato la compagnia Le belle bandiere. Quasi per caso eravamo finiti nel mio paese di origine, Russi, dove avevamo trasformato un cinema parrocchiale, un palazzo abbandonato, un vecchio macello, una chiesa dal tetto sfondato, la piazza e alcune case di campagna in teatro aperto agli amici e ad ogni tipo di pubblico. Niente ci spaventava, andavamo ovunque l’ispirazione e l’entusiasmo ci portassero, senza luce, senz’acqua, senza bagni. Il Comune ci dava il supporto che poteva.

Sperimentammo in giornate e nottate indimenticabili il potere del teatro, di come possa farsi fulcro di comunità, motore di cambiamento, volano di scoperte. Il nostro Laboratorio permanente si popolò di decine e decine di attrici e attori, accogliendo moltissimi collaboratori di ogni genere e convocando una sorprendente quantità di pubblico di tutte le culture, età, estrazioni. 

Si creò una corrente energetica che portò a ristrutturare e ad aprire definitivamente al pubblico tutti questi spazi, dei quali nessuno è gestito da noi, che ci confermiamo ancora una volta nomadi viaggianti senza imperi, per quanto per sempre innamorati dei luoghi che abbiamo abitato.

Ma il luogo più magico fu il vecchio Teatro Comunale, chiuso da vent’anni. A quei tempi bastavano un sindaco e un assessore entusiasti per abbattere tutte le questioni relative alla sicurezza e io viaggiavo con le chiavi del paese in tasca, compresa quella del teatro.

E’ indimenticabile la sensazione della luce sulla polvere dell’atrio, sulla testa di marmo di un antico monumento perduta e ora ritrovata, sul pavimento, sul palcoscenico dal soffitto sfondato. Mi parlavano dal passato il sipario blu cadente, lo schermo del cinema appeso di lato, il quadro elettrico antico, i manifesti, le poltrone di ferro battuto e velluto rosso accatastate, le macerie, i palchi deserti e distrutti. Ovunque volavano presenze. Cominciò il lungo cammino delle false riaperture che ci vedeva quasi sempre in maschera, dalle più semplici e rudimentali alle più raffinate, con musiche, apparizioni, spettacoli in diretta tra il guano dei piccioni e le proiezioni. Impersonavamo i fantasmi che avevamo visto aggirarsi nel teatro chiuso. La gente si commosse, i giovani si incuriosirono, il teatro riaprì. La nostra prima replica fu salutata da un lancio di petali di rosa tra il pubblico in festa.

Sul Teatro Comunale non abbiamo alcun potere, anche se continuiamo a farci prove e progetti lasciando memoria di molte azioni e passaggi di artisti. Nemmeno un piccolo manifesto racconta questa bella storia, il che ci fa pensare a quante storie importanti restano senza memoria. Comunque il pubblico ci ritiene tuttora responsabili della stagione e si lamenta o si complimenta con noi anche se non c’entriamo niente con le scelte della stagione.

Abbiamo poi creato molti spettacoli in collaborazione con grandi e piccoli enti e teatri, spesso dedicati al teatro, molti in maschera, e continuando a cercare di incontrare nuovo pubblico, li abbiamo portati in grotte, piazze, ville, palazzi, colline al tramonto, rovine greche e romane, castelli, periferie. Ad ogni replica abbiamo scoperto nuove sfumature della relazione con il pubblico e con gli spazi e abbiamo continuato la sequenza  delle scoperte, facendoci guidare da maestre e maestri fantasmi come Isabella e Francesco Andreini, la Duse, il Brecht de l’Anima buona del Sezuan, i nostri avi tra Ottocento e Novecento. 

Ho dedicato tanto spazio a queste esperienze perché sono per noi testimonianza concreta di cosa intendiamo per ‘teatro popolare’. Si sono innestate naturalmente su quelle precedenti ampliando il nostro desiderio di creare un gruppo sempre più ampio di artiste e artisti collegati tra loro e di creare di volta in volta nuove case dove ritrovarsi. Si è sviluppata la nostra voglia e capacità di trasformare in teatro tutti i luoghi possibili e ci ha spinto a vedere, nel nostro meraviglioso paese, centinaia e centinaia di palcoscenici e platee addormentati pronti ad aprire le braccia.

Abbiamo avuto la fortuna di incontrare geniali artisti della luce, del suono, delle scene e dei costumi che ci hanno permesso di sperimentare linguaggi sottili e complessi.

Ora, dopo avere tanto lottato perché fosse riaperto un teatro, perché potessimo avere le condizioni per mettere in scena come desideravamo gli spettacoli, mi sento sempre di più in terra straniera.

Dov’è, quale è la mia tribù? Mi domando. Dov’è finita la possibilità di fare spettacoli con un bel gruppo di attori, di girare, di incontrare il pubblico più diverso?

Mi pare che il teatro abbia trasformato il suo linguaggio adattandolo a quello della politica, dei bandi, dei ministeri, degli uffici. E così anche gli orari, le parole, le formule, i tempi.

Messo sempre più in un angolo, ignorato spesso dai media, preso alla leggera dalla politica culturale, ha dovuto fregiarsi di nomi e di funzioni, come se la sola parola teatro, nonostante connoti un’arte potente che ci arriva attraverso i millenni, non bastasse a giustificarne la necessità.

Così il teatro per vivere deve diventare civile, sociale, terapeutico, turistico, divertente, educativo, politico e, nel migliore e più luminoso dei casi, popolare. Solo così riesce a farsi ascoltare e a raccontare quanto sia bello incontrare la gente, quanto sia naturale, necessario e sentito l’abbraccio che ogni volta si verifica quando con abbandono, impegno e fiducia si creano le occasioni di incontro vero con il pubblico. 

Allo stesso tempo sento che proprio al teatro, arte terribile, sincera, acuminata, è affidato oggi dalla storia il compito di sovvertire la grigia acquiescenza, di denunciare la gravità dei crimini del potere, di indagare il pensiero profondo delle persone, di esprimere i desideri, le aspirazioni, le visioni, le utopie.

Prima della pandemia sognai il mio teatro di Russi ancora abbandonato e chiuso. Era popolato di attrici e attori di tutte le epoche che lo trasformavano in mongolfiera o nave, le quinte e i fondali diventavano vele, le corde, sartie. Si volava via, fuori dai teatri, perché il teatro potesse tornare nel mondo, tra la gente, nel cuore delle comunità.

Serve il teatro? Mi domandavo.

Da quella visione sono nati diversi lavori e ho cominciato piano piano a rinunciare agli apparati, luci, scene, teatri, per prendere la maschera di cantastorie e provare a riallacciare i fili con un passato fertile e ricco dal quale imparare a leggere e a raccontare le storie del presente, avventurandomi ancora una volta in luoghi insoliti: musei, piazze, argini, cortili, palazzi.

Sono stata sorpresa dall’adesione delle persone, dalla loro voglia di riconoscersi nei racconti, di specchiarsi, di rilanciare in alto cuori e speranze. 

Che sia questo per me oggi il teatro popolare? E sia che porti la maschera, sia che la immagini soltanto per essere più libera attraverso il velo di un personaggio, sento che devo ascoltare gli antichi maestri della commedia dell’arte che seppero viaggiare il mondo infilzando sempre, con arguzia e coraggio, la verità. Sappiamo poco di loro, ma sentiamo la corrente di fascino che hanno lasciato.

Non sono certo alla loro altezza, ma, in questo tempo di paura e follia, ci provo. Inseguo la sensazione sempre più forte che il teatro fugga dal potere e che il potere fugga il teatro. Non c’è testimonianza più evidente della sua forza.

Cari amici, trent’anni sono una storia: immagino che si affastellino immagini, emozioni, battute, ricordi. Vorrei sentirli raccontare tutti, testimonianza viva che il teatro resiste a tutto. Il senso di un compleanno è anche guardare indietro per guardare avanti, nonostante questi tempi inimmaginabili di violenza. La guerra e le tirannie hanno sempre voluto chiudere i teatri, ma non hanno mai incatenato il teatro, brillio, condivisione di sgomento, speranza, resistenza. Avanti dunque, verso i prossimi trenta anni, e ancora. È amore.

Simone Pacini

Articoli correlati

Condividi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Fatti di teatro - il podcast (ultimo episodio)

Vuoi ricevere "fattidinews" la newsletter mensile di fattiditeatro?

Lascia il tuo indirizzo email:

settembre, 2025

X