Dopo averlo portato a Milano – città che spesso li ha visti in scena, in questi ultimi anni -, i Phoebe Zeitgeist approderanno il 6 e 7 dicembre a Montecelio, Roma con il loro “Adulto”. Abbiamo incontrato il regista, Giuseppe Isgrò, per conoscere meglio sia la compagnia ed il suo progetto artistico intellettuale, che per sapere qualcosa di più dello spettacolo in scena al Piccolo Teatro dei Sassi.
F.R.L.: “Phoebe Zeitgeist: un nome senza dubbio particolare. Da dove deriva?”
G.I.: “Il nome è tratto da un personaggio dei fumetti americani anni “60, che Fassbinder riprende in “Sangue sul collo del gatto”. E’ un’aliena androgina, che cade sulla Terra per studiare la democrazia tra gli uomini, ma, non comprendendo il linguaggio umano, impara a memoria le parole e ne distorce il senso. Viene dal nostro interesse per la parola, che è polisemica e non esaurisce mai tutti i significati”
F.R.L.: “Un nome difficile da pronunciare, ma forse poi anche da ricordare…”
G.I.: “Diciamo che non ce ne siamo preoccupati. Ci è sembrato molto naturalmente il nostro. Tra l’altro viene da un percorso precedente, dove io e l’attrice Francesca Frigoli ci chiamavamo così all’interno di un gruppo post punk sperimentale, di cui eravamo le voci recitanti. In questi senso è un nome che ci appartiene profondamente. Chi ci ricorda, ci ricorda poi anche per la particolarità di questo nome.”
F.R.L.: “Un inizio punk… e poi?”
G.I.: “Il mio lavoro è nato da diverse esperienze. Tra le altre, quella come assistente alla regia all’Elfo e quella a Berlino, dove ho vissuto e seguito la scena artistico-culturale della città nei primi anni 2000 e poi… i viaggi, gli incontri con gli artisti più disparati.
F.R.L.: “Ma chi sono gli artisti che formano i Phoebe Zeitgeist?”
G.I.: “Lo zoccolo duro è quasi familiare, come accade per molti gruppi del teatro indipendente italiano. Siamo: io, regista e direttore artistico, Francesca Frigoli, che è attrice, ma anche organizzatrice e artista visiva con un suo percorso pittorico alle spalle che ha forti tangenze con l’identità del gruppo, Giovanni Isgrò, mio fratello e responsabile tecnico del gruppo, ma anche autore di un lavoro di drammaturgia del suono, che è una costante che ci caratterizza, e Francesca Marianna Consonni, dramaturg e curatrice della compagnia…”.
F.R.L.: “Ci spieghi cos’è un ‘dramaturg’? Un concetto che qui in Italia non è sempre così chiaro…”
G.I.: “Sì, appunto. Il ‘dramaturg’ non è il drammaturgo, ma è una figura intellettuale, che si occupa di connettere il lavoro della compagnia al mondo culturale circostante, sviluppando il senso che la compagnia produce attraverso gli spettacoli e arricchendolo di contenuti. Produce materiale culturale sia internamente alla compagnia, che esternamente, al mondo a cui si rivolge il lavoro del gruppo. Il ‘dramaturg’ è presente alle prove, segue le scelte dei testi, il lavoro sul racconto degli spettacoli, scrive il foglio di sala, parla agli incontri pubblici, alle conferenze… E’ un comunicatore.”
F.R.L.: “Agevolatore?
G.I.: “Agevolatore, sì. E in alcuni casi, se necessario, anche un “complicatore” dei contenuti e delle relazioni.
E poi ci sono, fra gli altri attori, in primis Margherita Ortolani entrata a far parte del gruppo più recentemente. E’ la nostra ‘Loretta Strong’, nonché nei “Blues” dove interpreta più ruoli. E’ autrice e attrice di “Preghiera. Un atto osceno”, spettacolo nato all’interno dell’esperienza di occupazione del Teatro Garibaldi di Palermo. Luogo dove abbiamo conosciuto Vito Bartucca, ad esempio, o Giuseppe Massa di Suttascupa, nell’esperienza di condivisione degli spettacoli presentati in quella realtà e che poi sono entrati a far parte della rassegna “Contagio” da noi curata – in stagione al Tertulliano di Milano, l’anno scorso, e la prossima primavera all’Elfo. Il link con Palermo è stato per noi fondamentale, lì è nata anche l’amicizia e la volontà di collaborare con Dario Muratore, interprete di ‘Adulto’. Poi nel nostro percorso ci sono stati tantissimi altri incontri fondamentali, con persone che sono state referenti e compagni di viaggio, come Antonio Caronia, Alessandra Novaga ed Elena Russo Arman, tra gli altri.”
F.R.L.: “Una compagnia con già 7 anni di vita al suo attivo. Qual’è il progetto sotteso?”
G.I.: “Senz’altro quello di costruire un nostro linguaggio, che penso oramai abbia i suoi punti identitari, anche se cerchiamo di lasciarli sempre aperti e passibili di evoluzione. Sicuramente abbiamo lavorato moltissimo sul contemporaneo, attraverso “autori guida”, che abbiamo cercato di fare nostri. Direi Fassbinder, su cui da studente ho scritto una tesi di laurea, seguendo le repliche e le prove degli spettacoli dai testi di questo autore all’Elfo. Mi interessava la teatralità nel cinema di Fassbinder e la costruzione, in qualche modo, cinematografica del suo teatro. Ecco, questo è sicuramente un punto che ci riguarda: la comunicazione e l’intersezione fra i linguaggi artistici. Un teatro fortemente implicato nel contemporaneo attraverso l’utilizzo spinto del suono: come nel caso del “Ballard” con una musicista dal vivo in scena. Anche la ricerca sui segni visivi in scena per noi è importantissima: non a caso abbiamo scelto come dramaturg una critica d’arte, non strettamente legata all’ambito teatrale e spesso abbiamo affiancato al nostro lavoro artisti visivi, su tutti cito Giovanni De Francesco. Allo stesso tempo c’interessa l’estremizzazione della parola, il lavoro serrato su questa, sull’attore, sul corpo- non facciamo un teatro puramente visivo e concettuale. La divaricazione fra questi due aspetti ci connota fin dagli esordi, fin dallo studio su “Katzelmacher” di Fassbinder, continuato con “Line, il tempo” di Agota Kristof , il delizioso baratro di Copì, di cui abbiamo messo in scena “Le quattro gemelle”, “Loretta Strong” e, nel 2010, “La giornata di una sognatrice”, che era un lavoro più classicamente teatrale, anche se con i nostri soliti segni. Nel frattempo c’è stato “Note per un collasso mentale” tratto da Ballard, che è un lavoro fortemente contaminato, performativo, legato anche al linguaggio visuale e musicale, con una drammaturgia totalmente orizzontale non narrativa; un montaggio quasi da concerto, un uso spinto del suono sia live della chitarrista Alessandra Novaga, sia dei microfoni e dei live elettronics di Giovanni Isgrò. Dopo di ché ci siamo dedicati a scandagliare i “Blues” di Tennessee Williams, ma non tanto perché c’interessava l’autore in sé, quanto per andar dentro a un immaginario detritico e precipitato del sogno americano, legato a una certa marginalità e a un’estetica fortemente campy. Poi “Preghiera”, un lavoro di Margherita come autrice e attrice, più legato ad una drammaturgia interna, che ho scelto di coprodurre e dirigere durante l’occupazione del Garibaldi di Palermo. Da lì è nato anche il desiderio di portare in giro con noi, anche altre compagnie conosciute a Palermo con cui c’è stato un forte riconoscimento poetico ed estetico: è nata lì l’idea di “Contagio”. Dopo “Preghiera” nasce “Adulto”. Adesso stiamo provando con l’attore Woody Neri un testo di Giuseppe Massa intitolato “Kamikaze number five” – debutterà il 24 aprile al teatro Bolognini di Pistoia.”
F.R.L.: “Ma intanto il 6 e 7 dicembre a Montecelio (Roma), sarà di scena il vostro ‘Adulto’, una sintesi alchemica di tre testi: “Petrolio” di Pasolini, “Aracoeli” della Morante e “Testamento di sangue” di Dario Bellezza…”
G.I.: “Sì, io sono autore e regista dello spettacolo: mia l’ideazione, la scelta dei testi e la costruzione dello spazio scenico. E’ uno spettacolo, che nasce dal dialogo con l’attore Dario Muratore e dall’intuizione che fosse, finalmente, arrivata l’occasione di trattare questi testi letterari che hanno per me un significato emblematico, precedendo la morte dei loro autori e parlando della morte di tutta una società e di un panorama ideologico, che è quello degli anni 60 e 70 in Italia (e nella società occidentale). Un momento cruciale, di passaggio dal pubblico al privato, dal politico collettivo e di movimento, al politico delle relazioni, dell’individuo, del comportamento sociale fra gli uomini, che si fa paradigma politico. Sia “Petrolio” sia “Aracoeli” sono dei testi fortemente anomali. Nel caso di Pasolini il progetto di un grande romanzo, quasi fosse una grande “Divina Commedia” contemporanea, che non ha potuto finire di scrivere, perché, appunto, è stato ammazzato, pare, anche per alcuni contenuti e rivelazioni del libro. “Aracoeli” è un libro totalmente involutivo, crudele, nero che viene, tra l’altro, da un’autrice che aveva trattato i temi dell’infanzia in maniera “positiva” e nel suo ultimo romanzo giunge invece a una negazione del potere salvifico dell’infanzia. E’ il viaggio a ritroso di questo quarantenne omosessuale fallito, Manuele, che non riesce a trovare una soluzione al rapporto con la madre, con la famiglia, la società e quindi desidera quasi un morire, rientrando nell’utero; tematica che ritorna anche in “Petrolio” di Pasolini. “Testamento di sangue” è invece un poema drammatico. Una forma desueta nella letteratura italiana del “900 ed è un omaggio che Bellezza fa ai suoi maestri Pasolini, Morante e Sandro Penna. Inizio anni “90, malato di aids, Bellezza parla con questi fantasmi in una società che non rende più possibile la poesia come elevazione, ma può produrre solamente una poesia fortemente sporca, malata, contaminata, dove predomina il senso della morte e della rinuncia al vivere sociale. Da lì l’involuzione e il desiderio di un procedere inverso, all’interno di sé, delle proprie viscere, del dolore, della malattia.”
F.R.L.: “Quindi è l’involuzione la cifra comune a tutti e tre i testi ?”
G.I.: “Un’involuzione che non porta alla rinuncia o al nichilismo disfattista e totale, ma un’involuzione di ricerca, cioè il rifiuto del pensiero progressista borghese di inquadramento sociale di normativizzazione, irregimentazione. In qualche modo ricercare una forma di libertà nel ricorso all’infanzia, nel non risolto, nel caduco. Urla disperate profondamente anarchiche e non allineate, quelle di questi autori. Ma anche manifestazione di una corrente fortemente politica, che è quella dell’ anti progressismo e del rifiuto di un’Italia, in cui stava estremizzandosi fortemente il conflitto sociale. Sono gli anni del terrorismo, dell’omicidio Moro, dell’omicidio Pasolini, che è solo di tre anni precedente.”
F.R.L.: “Come avete proceduto?”
G.I.: “Sono stralci, frammenti, la drammaturgia reale è sul corpo dell’attore nello spazio costruito, che è una sorta di spazio autogeno dove tutto – il suono, le luci… – è governato dall’attore in scena attraverso led, neon, vecchie radio analogiche con musicassetta. Anche le voci registrate di Ferdinando Bruni e Ida Marinelli sono state inserite nello spettacolo a seconda del procedere drammaturgico e sono molte meno di quante non ne fossero state registrate in principio.
Lo spazio scenico è uno spazio ambiguo, mobile, un telone da muratura con dei cumuli di sabbia da cantiere… Poi ci sono degli oggetti ludici: dei rastrellini, delle palettine da bambino, che sono sia utili a scavare e a rimestare nella materia, sia dei giocattoli, a livello più immediato. Nel prologo che precede l’entrata dell’attore in scena, si recita uno stralcio di Bellezza: “Dove un bambino, io… se ne stava lì come un babbeo, intrufolatosi, impaurito di entrare nella brutta vita”. In qualche modo il poeta, l’artista, la persona che ha una sensibilità particolarle e non conforme, si esprime attraverso altri strumenti, che non sono quelli della vita attiva, del procedere borghese dell’uomo conforme. Sono processi empirici ed eretici, come direbbe Pasolini, non ortodossi. Un uomo in gabbia: ed è una gabbia anche questo spazio scenico, perché è uno spazio molto piccolo dove l’attore ha anche degli impeti fisico emotivi molto forti che sono contenuti in una sorta di spazio mentale, di costrizione, chiuso. Una sorta di implosione esplosiva. A livello di senso è una sorta di buca. Ed è una buca anche il luogo, dove il protagonista di “Petrolio”, Carlo, va ad espletare i suoi atti orali con questi venti ragazzi del popolo: un prato di erba secca, di terriccio, che però poi diventa una sorta di altare sacro, di luogo della rivelazione… Ecco: questo ci interessava, essenzialmente.Così come c’interessa esprimere la necessità nostra, come gruppo di artisti, di creare scena, di mescolarci, di contagiarci, d’incontrare altri artisti della nostra generazione e non, con cui riconoscerci e avere delle tangenze importanti. Cercare una possibilità di pensare a delle modalità differenti che ci permettano di fare questo lavoro. Uscire dal vecchiume, dove si deve sempre confrontarsi e dipendere, pendere dai “padri”. “Adulto” è anche un lavoro su questo: l’impossibilità di un’ adultità vera, nella mancanza di strutture, di finanziamenti, di un sistema culturale vivo e ricettivo, prima del resto. Resta solo la possibilità di relazione e d’incontro che per noi è fondante…”
F.R.L.: “Inventandosi delle modalità differenti?”
G.I.: “Beh, sì. Siamo stati dentro e vicini a diverse occupazioni culturali, siamo stati promotori di una rassegna di teatro indipendente che, comunque, sta facendo il suo giro, continuiamo ad interessarci alle situazioni, dove gli artisti possano comunicare, dove non si ritrovino dentro ad un contenitore, che dopo averli visti passare li dimentica. Un posto molto interessante, a Milano, da questo punto di vista, – a parte il Teatro dell’Elfo, che ti mette nella condizione di lavorare a un livello garantito e di essere promosso in modo adeguato – è il Teatro della Contraddizione. Chapeau per il lavoro delle persone che lo dirigono, perché riescono a creare connessione fra gli artisti in stagione, farle comunicare e dar loro spazi di crescita e di ricerca. Un’altra realtà che mi piace citare sempre è quella che hanno creato i Teatri in Gestazione, a Napoli con Alto Fest, dove attraverso delle anteprime in luoghi bellissimi e insoliti, messi a disposizione da donatori privati, molte compagnie (non solo italiane) presentano studi particolari, riscrivendo lo spazio con il loro lavoro e al contempo riscrivono i loro lavori nell’incontro con gli spazi. Un piccolo miracolo, oltre che una grande occasione di scambio.”
...blogger per voyeristica necessità!
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