Prima o poi ci sono arrivati tutti. I grandi, intendo. Prima o poi, tutti sono arrivati a pensare che eccellere nel loro campo non sarebbe stato nulla, se non fossero anche stati capaci di far arrivare la loro arte, scienza o comunque passione anche a quei “piccoli”, senza raggiungere i quali, in fondo, non è la stessa cosa. Spontaneamente, forse, riaffiora il versetto: “Se non ritornerete come bambini…”, ascoltato chissà quante volte, a Catechismo o nella Messa della domenica mattina, in quel periodo della formazione di noi diversamente giovani, che sembrava prevedere queste, come tappe evolutive irrinunciabili. Procedendo con gli studi, abbiamo sentito parlare del “Candido” di Voltaire, quasi a conferma che è proprio il miraggio di un’innocenza inviolata, ciò che perseguiamo nel bisogno di restare in contatto coi più piccoli. Leggenda vuole che perfino l’austero filosofo Immanuel Kant coltivasse in cuor suo il sogno di una storia della filosofia per bambini; e le favole, del resto, altro non fanno che raccontare il mondo, i pensieri e le storie, a chi ha ancora più cose da scoprire che desideri a cui dar forma.
E’ in questa scia che si colloca il teatro ragazzi, sorellina minore, ma, zitta zitta, non sempre effettivamente cadetta, del Principe Teatro, detronizzato da più moderni strumenti d’arte e comunicazione, ma, forse anche per questo, ancor più bello “di fama e di ventura”. Come l’astuto Ulisse.
Di teatro ragazzi se ne occupano in molti. “I bambini sono il pubblico di oggi, prima ancora di essere quello di domani”, ricordava, Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura del Comune di Milano, nel consegnare, lo scorso 4 maggio 2017, l’Eolo Award per il Miglior Spettacolo ad “Ahia!” di Teatri di Bari. E, proprio la rivista “Eolo”, da sempre attenta agli spettacoli di teatro per bambini e ragazzi, che anche quest’anno ha voluto inserire la consegna dei suoi premi all’interno del Festival Segnali. Nato da un progetto comune di Teatro del Buratto e del Centro di Produzione Elsinor, con la collaborazione di NEXT, Regione Lombardia e Fondazione Cariplo e il sostegno di Comune di Milano e Mibact, questa vetrina-maratona è diventata un appuntamento fisso della primavera meneghine.
Degli spettacoli in programma – che spaziavano da racconti per piccolissimi, con tanto di pupazzi, fino a storie tratte da fatti storici o da grandi classici, a sollecitare i più grandicelli a un approccio maggiormente strutturato col contemporaneo -, abbiamo visto: “L’Amleto” degli Eccentrici Dadarò, “Via di lì. Storia di un pugile zingaro” di Pandemonium Teatro e “Tempesta 6+” di Residenza Idra.
Eccentrici Dadarò si occupano anche di teatro per adulti. Forse alcuni avranno visto “Nina”, atto d’amore a Cechov e al Teatro, in cui una splendida e commovente Rossella Rapisarda gioca un dentro e fuori fra la protagonista della tragedia cechoviana e il ruolo di se stessa, innamorata del più bel mestiere del mondo, o “Senza filtro”, in cui, con nota ugualmente naïf e sognante, con in scena il musicista Marco Pagani, ripercorre i luoghi della poetessa milanese. Chi li conosce, sa della loro cifra onirica e surreale, dell’emozionalità del loro teatro e di quell’artigianalità, che profuma ancora di bottega, senza per questo rinunciare a giochi di luci e una pulizia d’immagini, che accompagnano, senza protagonismi, lasciando al pubblico l’agio di farsi cullare nella visione. Nulla di questo nel loro Amleto. Meglio: se la cura di luci (pulite e colorate, a mo’ di tonalità emotiva, a pedagogico commento delle situazioni), costumi (quelli che ti aspetteresti vedere indossati da tre “comici”, come si chiamavano dell’epoca, ma poi con dettagli distonici e quasi clowneschi come le bretelle rosse, che fanno subito auto ironica empatia) e scenografie minimaliste, ma che non rinunciano a divertirsi nel gioco degli ossimori fra antico (la materia del contendere) e contemporaneo (un essenziale, ma sofisticato set televisivo) sono quelle, ciò che manca è quella carica emozionale, a cui ci hanno abituato. Eppure è una scelta corretta, quella di giocarsela, con questo pubblico di neo adolescenti, in ironia, ammiccamenti a un linguaggio social easy friendly, cavalcare i registri più disparati, ivi compresa la gag clowewristica (Rosencrantz e Guildenstern), il teatro d’ombre, il teatro nel teatro e il tono colloquiale, specie nei momenti, in cui sono i tre attori che raccontano in terza persona gli eventi, senza rinunciare a equivoci e giochi di parola, per poi lasciar affiorare l’ interrogativo: “Già, e se fosse capitato a te? Tu cosa faresti?”. Così, spesso terminano le loro sequenze narrative negli “a parte” di shakespereana memoria; e, così, ridestano i giovani spettatori alla coscienza di un teatro che non vuol essere solo narrazione e intrattenimento.
Tradizione e tradimento, dunque, nell’inverare le strutture dell’opera del Bardo, da un lato riversandola in un linguaggio e in un mood molto più vicino, comprensibile e accattivante per il pubblico scelto, dall’altro nel restare fedeli non solo alla traccia drammaturgica, ma anche in quell’intento etico, che certo non manca agli scritti del tragediografo di Stradford.
Mutati mutandis, discorso del tutto simile si può adattare anche all’altra ripresa di un’opera shakespereana: “Tempesta 6+” di Residenza Idra. Certo all’apparenza ben diversa (il palco, qui, è molto più ingombro e più elementare la cifra iconica di costumi e scenografia), ma identica è la capacità funambolica di librarsi sul filo teso fra fedeltà e invenzione. La scheda tecnica indica che lo spettacolo è pensato per bambini delle elementari e questo giustifica la resa segnicamente naïf delle scenografie e la presenza di un maggior numero di oggetti di scena con cui intergire (a bimbi più piccoli, non si può chiedere un medesimo sforzo immaginativo, che non parta da un supporto concreto). Eppure la cura e la precisione performativa degli attori (Roberto Capaldo, pure drammaturgo e regista, Sacha Oliviero e Francesca Perilli) nell’alternanza dei linguaggi, lo rende uno spettacolo godibile e dunque fruibile anche da un pubblico adulto, capace di riconoscerlo e apprezzarlo al meglio. Nessuna didascalia, né teatro nel teatro, qui; le scene sono tutte recitate e l’elemento di varietà lo si trova nell’alternanza dei codici: teatro d’ombre (sostenuto da una luci dai colori accesi e d’effetto, entro cui mirabilmente si contorcono i corpi degli attori), Commedia dell’Arte, gag, calembour, canzoni e piccoli “artifici scenici” (la lucina rossa, ad esempio, che è Ariel, e che quasi magicamente trapassa il diaframma del fondale, per venir quasi stritolato fra le mani minacciose di un Prospero ancora non disposto a restituirgli la libertà promessagli) ed una caratterizzazione dei personaggi efficace e ottenuta attraverso l’accentuazione del dialetto e pochissimi essenziali elementi scenici (le maschere e le tute con tanto di stivaloni incorporati, ad esempio, per i due marinai, che risultano ancor più felici nel trasformarsi nel sembiante dei teatranti, nel celeberrimo monologo: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni…”).
Atmosfere pulite ed essenziali, invece, anche in “Via di lì. Storia di un pugile zingaro” di Pandemonium Teatro, di e con Walter Maconi. Anche qui la ricerca della contemporaneità e, soprattutto, di contatto con un pubblico di adolescenti (consigliato dagli 11 ai 18 anni), è perseguita attraverso uno spazio sgombro, spesso in penombra (solo nel momento di massima tragedia si accende di rosso, restandogli sconosciute le cromie emozionali degli Eccentrici Dadarò), in cui interagiscono video (ora in funzione narrativa, ora in funzione drammaturgica) e un linguaggio più rubato alla strada, che sospeso in una poeticità fiabesca (com’era per “Tempesta 6+”). Racconta la storia del pugile sinti Johann Trolmann, detto Rukeli, campione di Germania dei pesi mediomassimi negli anni trenta. Una parabola di trionfo e rovina, questa, che, mentre descrive la vicenda di un ragazzo, il cui sogno e la cui fiducia nelle proprie potenzialità gli avrebbero probabilmente regalato quella chance negatagli, invece, dall’ottusità delirante della Nazismo, in controluce, delinea una delle pagine più dolorose e ignominiose del “900. E’ un messaggio forte, che arriva con tutta l’efficacia di chi sa toccare le corde giuste: e un idolo sportivo, per quanto di una disciplina e di un’epoca forse non così facili all’immedesimazione, oggi, resta comunque uno degli ultimi archetipi del “tragico”. Apprezzabile il garbo nel porgere la vicenda, che, pur ambientata fra campi rom, ring e campi di sterminio, riesce a trasmettere la propulsività della passione come elemento di rivalsa individuale e sociale, senza lasciarsi travolgere da violenza e grettezza ideologiche e morali, prima ancora che fisiche.
Ah, curiosi di sapere chi ha vinto l’ “Eolo Award 2017”? “Ahia!”, di Teatri di Bari, che l’ha fatta da asso piglia tutto…
...blogger per voyeristica necessità!
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