Cos’è, la comunicazione? Solo un minuetto di paraventi in organza dietro cui schermarsi oppure su cui proiettare le proprie intimità o la rappresentazione che vogliamo darne al nostro interlocutore? Cos’è, l’amore? E cosa, la vita, l’amicizia, la complicità fra donne?
Sono queste, le domande che si affastagliano, assistendo a “Louise e Renée”, trasposizione drammaturgica, di Stefano Massini, delle “Memorie di due giovani spose” di Balzac.
In scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 30 aprile 2017, le impeccabili Isabella Ragonese e Federica Fracassi, dirette da Sonia Bergamasco, ripercorrono la vicende epistolare di due compagne di collegio, separate poi dalla vita e costrette, ciascuna a proprio modo, a seguire percorsi, che le avrebbero portate su strade differenti. A monte la promessa, stigma della temperie emotiva di quella giovane età, di non perdersi e di mantenersi in contatto epistolare. E così succede, per l’intero arco di una vita, che le avrebbe portate a non rincontrarsi mai più, ma segnato dal canto e controcanto delle lettere, che le mostrano “amiche”, “sorelle”, “specchio”, come loro stesse scambievolmente si chiamano negli incipit delle missive. Eppure le due identità, che si tratteggiano sembrano essere apparentemente opposte e per certi versi davvero speculari.
Se Renée, infatti, appena rientrata a casa, si vede costretta a un matrimonio di interesse, a cui non sa ribellarsi e che la relegherà in una monotona vita di campagna, Louise, così la definisce la stessa amica, sarà la sua “parte avventurosa”, vivendo nella buona società cittadina, dove, forte anche del suo temperamento acceso e passionario, riuscirà a sposarsi, sì, ma per amore. Poi la vita porterà ciascuna ad approdi inaspettati, raccontati o forse romanzati ad usum dell’altra; è questo, che offre l’opportunità, al doppio autore (Balzac, di sicuro, ma anche Massini) di punteggiare le loro vicende biografiche con riflessioni sulla condizione della donna di allora, ma anche sulla sua presa di consapevolezza (non sarebbero passati quindici anni, che Flaubert avrebbe scritto “Madame Bovary”…), su cosa siano l’amicizia (“sorridere dei mostri altrui”, diranno) e l’amore (“un furto alla natura, così fugace e passeggero…”, perché, quasi matrigna dispotica, la Natura è tratteggiata come invidiosa; lo sanno bene entrambe: l’una costretta ad isolarsi sulla via per Versaille, per preservare quella felicità divenutale così indispensabile, da non essere più disposta ad accettarne “un solo grammo di meno”, l’altra, da stringere un patto rabbioso con la Natura, pur di preservare la vita di quel figlio, inaspettatamente donatola a lei, che sie era sempre creduta “spenta”). Costante è l’attenzione al senso dell’auto rappresentazione di sé attraverso la mediazione di un supporto capace, al tempo stesso, di smascherarci, ma anche di schermarci.
E’ immediatamente chiaro, ai nostri giorni, a chiunque usi il medium di chat e social. Se, da un lato, infatti, questi canali polverizzano le normali tempistiche di conoscenza, portando, spesso, ad un inusuale grado di confidenza e intimità nel volgere di pochissimo tempo, dall’altro con proporzionale rapidità si arriva a ritenersi in diritto di esprimersi nel modo più sfrontato. Schermati, come spiega Massini, dalla medietà di una comunicazione non vis-à-vis, un ruolo non secondario forse lo gioca pure il fatto di sentirsi tanto intimi, quanto lo si diverrebbe solo dopo un ben maggiore periodo di frequentazione e conoscenza graduale, nella vita reale. E’, questo, ciò Massini definisce una parola “profondamente emotiva” (“stupido, l’amore, stupidissimo credergli… Eppure non c’è lettera, in cui non lo esaltiamo”, l’initerrotto oggetto degli scambi emozionali delle amiche) eppure “anaffettiva”, incapace, cioè, di fermarsi davanti agli affondi più crudeli. “Son passati solo tre mesi e già ti sposi?”, scrive Louise a Reneé; e poi la stoccata: “Non fai in tempo ad uscire da un convento, che entri in un altro!”.
La scena è pulita ed essenziale: pochi elementi, all’inizio, quasi a indicare il mondo lineare delle due adolescenti, che, come le loro stesse vite, via via si complica, popolandosi con un andirivieni di paraventi in organza dalla multi funzionalità. Un po’ riparano, certo, ma molto alludono, nel gioco delle trasparenze e degli specchi così suggestivamente solo accennati. A tratti scompaiono, svelando, a tratti diventano loro stessi i supporti su cui proiettare quell’esplicito, che le reticenze non solo sociali delle amiche omettono. Sono metafora e stigma di uno struggimento femminile tutto “800, in cui la donna andava acquisendo una propria consapevolezza anche attraverso una grammatica e una pragmatica degli affetti. C’è tutta l’ambivalenza della determinazione di sé, ma anche della fascinazione (anche auto imposta) del “come tu mi vuoi”. E, in questa scatola magica dalle forme lineari e dalle luminosità sospese e irreali, non possono muoversi che due bamboline di biscuit. Identiche ed evanescenti nei loro preziosi e curatissimi vestitini dal colore tanto indefinibile, quanto anonimo (tale doveva essere il ruolo assegnato loro dalla società maschilista), le due giovani donne giocano, in fondo, il ruolo di comparse di un ingranaggio che, sebbene inizi ad avere il garbo del carillon, tale, però, in fondo resta. Ciascuna a modo proprio e, ciascuna, in modo apparentemente speculare all’altra, in fondo sembrano essere solo le due varianti di un medesimo destino. Ma, questo, è solo quello che tocca in sorte a loro in quanto donne? La sensazione è che nessuno possa scampare a quella trappola così sapientemente apparecchiata, con arguzia e sagacia, nel racconto del pranzo di fidanzamento di Reneé ad esempio. Se la società, infatti, viene definita “fiera di vizi” e, il bel mondo, “mondo di belve”, non resta loro che rimanere fedeli a quel patto di fanciulle (anche rappresentato nella prima scena col candore di un’età edenica, di cui, non a caso, loro mantengono gli abiti per tutto il tempo) e continuare a scrivere “per non sentirsi sole, in questo giardino lezioso, che chiamano mondo”, come confidano. Tutto questo emerge bene dalla regia della Bergamasco, che, nello scegliere una cifra così pulita e leggibile, pecca forse di un eccesso di formalismo quasi estetizzante, che però ben restituisce l’ossimoro di quella parola emotiva, ma anaffettiva. Duttili e generose Isabella Ragonese e Federica Fracassi nello scambio e trasposizione dei piani e nel gioco attorale del passaggio di testimone nella narrazione, che riesce a fluidificare l’inevitabile alternanza epistolare, in un continuum, che dice quasi di un medesimo flusso si coscienza.
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