“Atti Osceni” di Bruni/Frongia a inaugurare il Progetto Wilde

In scena dal 20 ottobre al 12 novembre 2017 al Teatro Elfo Puccini di Milano, “Atti Osceni” di Moisés Kaufman fa parte di un progetto Wilde di Bruni/Frongia: “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, al debutto il 17 novembre, e poi il reading “Il fantasma di Canterville”, dal 21 novembre al 2 dicembre.

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Li si riconoscono subito, la mano e l’immaginario dei due Elfi. Il palcoscenico, anzitutto, diventa davvero un luogo osceno: oscenamente denudato di tutto – quinte comprese -, ci si presenta come slabrato in un’orizzontalità panica, che accentua il senso di isolamento del poeta irlandese. Fin da quel frammento del “De profundis”, recitando il quale fa in suo ingresso in scena, Wilde si pone come lo stigma di se stesso e di quell’individualismo moderno, di cui fu consapevole, sistematico ed edonistico genitore. Ma non meno osceno, per altro verso, è lo schermo verticale, che domina il fondale: alto e stretto, come l’intercolumnio di una cattedrale gotica, suscita un’immediata vertigine. È quella di chi è costretto ad alzare il capo, se vuol vederlo in tutta la sua interezza, ma che non può non subire, al contempo, una contro spinta, che lo porta alla piena coscienza della propria piccolezza e umana miseria. Ecco, in che senso, già il disegno scenografico è osceno: come sa esserlo – al di là della connotazione sessuale – tutto ciò che fa scandalo. Perché è questo il punto: la messa a fuoco di Kaufman, infatti, non ha nulla di pruriginoso o allusivo. Chiama le cose per nome – con la trasparenza di termini leciti ed effettivamente in uso, all’epoca – e non indugia su triviali scambi di prestazioni sessuali versus regalìe, ma, al contrario, li nobilita, mostrando la potenza rigenerante di una compagnia giovane, a cui non si chiede il lasciapassare dello status sociale.

oscar_masellaE se questo può sembrare un pensiero ingenuo – aggettivo nel quale già si adombra l’accusa dei benpensanti dell’epoca -, saranno i tre processi, ripercorsi sul palco, a restituircene la misura. È un crescendo; in tutti i sensi. Perché quella che sembrava essere quasi una burla – la ripicca di un gentiluomo, istigato dal giovane amante a citarne in tribunale il padre, pretendendo ragione di un biglietto diffamatorio da lui scritto -, gli si rivolgerà contro come una catastrofe, capace di annientarlo, facendone il capro espiatorio d’interessi ben più grandi di lui. Se nel primo tempo, infatti, i toni sono beffardi e caricaturali – quelli di Oscar/Franzoni, ma non meno quelli di un Ciro Masella, strepitoso interprete, qui, del Marchese di Queensberry/padre del giovane Douglas –, oscar_laninocol progredire delle scene la divertita aria da commedia inglese si colora di toni più grevi, fino a mostrare tutta la lirica drammaticità dell’epilogo. Sfiorato il celeberrimo Each man kills the thing he loves – da “La Ballata del Cercere di Reading” -, la chiosa è in quel “La casa del giudizio”, recitata a più voci, quale suggestivo estremo tributo al poeta. La la sua effige è proiettata su quella colonna della scandalo, subliminale proiettore, per tutto il tempo, di dipinti, dettagli di quadri o tappezzerie, allegorie – una per tutte: la Morte, in abiti da Giustizia e quella scritta: “Discite iustitiam moniti” – e immagini di quella Bellezza, che, come Dostoevskij ma in accezione certo edonistica ed estetizzante, anche Wilde crede capace di salvare il mondo.

Uno spettacolo corale, in cui giustamente parti, ruoli e punti di vista si ridistribuisco in un’instancabile maratona fra attori tutti all’altezza di un lavoro così agile, energico e sfaccettato. Se Franzoni cresce – come lo spettacolo – nel secondo tempo, dove sfiora quel dolente lirismo, che abbiamo potuto apprezzare nel “Caro George” per la regia di Latella, il co-protagonista Buffonini non tradisce quanto mostrato fin dal primo – fatte salve quelle note istrioniche, sua cifra, ma che gli abbiam viste più accentuate in altre occasioni. Accanto a loro un come sempre stralunato Nicola Stravalaci, il cui modulare del falsetto, e di conseguenza di registro, dal primo al secondo atto, funge da cartina di tornasole del cambio di atmosfera e Giuseppe Lanino, è il misurato Avvocato Clarke della difesa, che non manca di raccontarci, a tratti, parte della storia – essendo, questa drammaturgia, costruita anche attraverso i rendiconti dei protagonisti.oscar_guys Accanto a loro il gruppo dei giovani: Giusto Cucchiarini/Bernard Show, Filippo Quezel/Frank Harris – che cortocircuita con la figura di Critone, nel voler far fuggire il maestro prima che venga emessa la sentenza definitiva, in una fulminea sovrapposizione cristologica Wilde/Socrate -, Edoardo Chiabolotti – a ricoprire, fra i tanti ruoli, anche quello della Regina Vittoria – e Ludovico D’Agostino, plastici, nelle parti minori e a cui è dedicato il cammeo delle miserevoli figure degli insulsi accompagnatori di Wilde. Di tutt’altra pasta Lord Alfred, quel suo ragazzo, pietra dello scandalo e oggetto di quell’osceno atto di demonizzazione, che, annientando il poeta inglese, andò a polverizzare il Rinascimento Inglese dell’Arte. Così, non si può uscir di sala senza chiederselo: cos’è osceno? E cosa fa davvero scandalo? Riecheggia il piglio dell’Avvocato Gill – poi Procuratore Lockwood -, interpretato da un magistrale Ciro Masella, che, ora istrionico e allusivo – vengono in mente certe occhiate alla Franca Liosini -, ora dolente e quasi compassionevole, interpreta in modo strepitoso quel tentativo di teatro neo-brechtiano di matrice anglosassone, su cui gli Elfi ragionano già da qualche stagione.

Francesca Romana Lino

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