“Cosa ci salverà, se non le nostre passioni?” Può sembrare una riflessioni un po’ melensa e dal gusto retrò, ma affiora spontanea, uscendo da teatro. Lo spettacolo in questione è “Mi voleva la Juve”, testo e regia di Gianfelice Facchetti, in scena fino a domenica scorsa allo Spazio Tertulliano. Giuseppe Scordio ne è protagonista anche della vicenda autobiografica.
Occorre delicatezza, in questi casi. Ci vuole tutto il tatto di chi mette mano a un vissuto, che gli viene raccontato, consegnato – affidato, quasi. “Maneggiare con cura”, perché, al di sotto della finzione scenica, c’è vita pulsante e reale e tutta l’incertezza di chi non lo poteva dare per scontato dall’inizio, il fino a qui happy and. Ecco, questi i punti di forza di questa rappresentazione, che nasce dall’incontro fra l’esigenza di Scordio di raccontarsi e la capacità di Facchetti di mettersi in ascolto, traducendo poi il tutto in una drammaturgia poetica, intensa e a tratti struggente, che certo arriva al pubblico – al di là di tutto.
Il modo del racconto è quello del teatro di narrazione – anche se qui l’impegno civile, se c’è, è in controluce alla vicenda autobiografica, che scolora nella filigrana dell’affabulazione e della fiaba. Così, se mancano, qui, gli ‘orchi’ e le ‘fate’ delle letture infantili, sono però sostituiti gli uni da più reali e non meno efficaci spauracchi della quotidianeità di una banlieu meneghina anni “70, gli altri da quelle figure magistrali che talvolta ci salvano, nella vita, anche quando non siano esattamente i nostri genitori naturali.
Sul palco pochi elementi scenografici: un fondale raffigurante un campo da calcio di quelli, su cui si spiegano le strategie d’attacco alla squadra; a un lato una sorta di cantuccio con i cimeli del caso (la mensola con i trofei, la maglietta, gli scarpini ormai appesi al chiodo e pile di copie di giornali sportivi). E poi entra lui, Scordio, tuta da ginnastica e borsone da allenamento, cantastorie delle sua stessa epopea all’amarcord. Narra della sua infanzia – felice, nella commovente evocazione del ricordo, ma che di felice non ha nulla, nei fatti, se non il fatto stesso di essere la sua commossa infanzia. Rievoca con un candore scritturale quasi disarmante atmosfere e situazioni da neorealismo post litteram e ce le porge con un garbo attorale, che quasi cozza col candore e la meraviglia, certo, ma soprattutto con la durezza di vicende evidentemente edulcorate dal ricordo, ma che ben si comprende non esser state altrettanto facili, nella concretezza di tutti i giorni. Così si affastellano, come in quel continuum magmatico e inarrestabile che è la vita, ricordi, aneddoti, azioni sceniche, sogni, speranze disilluse e illusioni esplose all’improvviso, proprio quando sembrava che la dura realtà prendesse il sopravvento. Assistiamo al sorgere inaspettato di un sogno – e poi all’altrettanto immotivato svanire, come una bolla che si sgonfi per nessun’altra ragione se non che una becera inerzia. E’ la vita che attanaglia – con quella rudezza violenta, che per fortuna non è data a tutti.
Sarebbe stato tutto qui: un sogno di gloria – e di rivalsa -, per un ragazzino di periferia, inaspettatamente catapultato nel sogno del calcio agonistico – nonostante le remore per il più piccolo dei fratellini rimasto a casa ad aspettarlo; nonostante la paura e il desiderio di esserne e non esserne all’altezza. Sarebbe stato tutto qui, con la realtà che poi torna a prendere il sopravvento: un ineludibile tentacolo, che ti riacciuffa alle spalle, proprio quando già ti sembrava di toccare la riva. Sarebbe stato tutto qui, se non fosse stato che, come ogni partita di calcio che si rispetti, anche la vita, talvolta, ha il suo “secondo tempo”: e, talvolta, sono dimenticati occasionali incontri infantili, che si sedimentano confusamente in noi, sospingendoci verso quella che allora forse sì, era una strada già scritta. Così il teatro – confuso ricordo di una marachella puerile, scappando da scuola – si rivela, per fortuita coincidenza, la via per tentare ancora una volta di sfuggire alla longa manus di un inaccettato determinismo. Ecco, questo il valore di “Mi voleva la Juve”: la testimonianza della caparbietà del lottatore – che, talvolta, paga -; il coraggio e la generosità di voler mettere in condivisione una storia tanto esemplare quanto ‘normale’; la tenacia – nonostante tutto – quale reale stupefacente contro la facile fascinazione di chimici alteratori di realtà.
Forte, soprattutto, la coscienza che si stia assistendo a una vicenda autobiografica. Così è proprio quando l’attore si sporca, deragliando dal manierismo di una recitazione forse troppo attenta alla forma, che il testo funziona e arriva più in profondità, armando la poesia del dire con quella ruvida efficacia che proviene dalla vita vissuta.
In scena per la terza volta in pochi mesi – nella stagione teatrale 2013-14,in Padiglione Teatri, rassegna teatrale in occasione di EXPO 2015 e poi ancora in questo incipit di nuova stagione teatrale – felice di averlo visto, sia pur in zona Cesarini.
MI VOLEVA LA JUVE
conGiuseppe Scordio
testo e regiaGianfelice Facchetti
produzioneCompagnia Artistica Tertulliano
Dall’ 11 al 22 novembre 2015
...blogger per voyeristica necessità!
- Sempre più Tournée da Bar(do)! Quando il teatro si fa intelligente e sostenibile… - 8 Giugno 2018
- La guerra dei Guinea Pigs agli atti di bullismo e trasgressione - 25 Maggio 2018
- Lo struggente Cantico di Latini Premio Ubu - 18 Maggio 2018