“Acciaio liquido”, testo di Marco Di Stefano, regia di Lara Franceschetti, ha debuttato martedì 24 maggio 2016 al teatro Out Off di Milano, dove resterà in replica fino a domenica 29.
Un testo éngagé, di quelli che non così frequentemente si vedono a teatro; un testo non a caso sostenuto da un parterre di sponsor di tutto rispetto, dal Comune di Milano al Mibact, dal CTA (Centro Teatro Attivo) alla CGIL dell’area metropolitana milanese. Il sapore è quello del “teatro civile”, che il pubblico meneghino sa di poter ancora trovare di solito in luoghi decentrati come il teatro Atir Ringhiera, ad esempio, nella periferia sud o, agli antipodi, al Teatro della Cooperativa di Renato Sarti, vicino al Di Stefano e presente in sala nell’affollata sera della prima. Un testo che, senza cercar facili vincitori o vinti, semplicemente enuncia il succedersi degli eventi, in un’escussione, in cui tutti sono un po’ vittime e un po’ carnefici. E’ l’ingranaggio ad esser delirante: e il Di Stefano riesce a guardarlo e stigmatizzarlo con chirurgico distacco, misurato cinismo e punte di empatica pietas, ma senza giudizio. E senza facili assoluzioni.
La vicenda è quella dell’acciaieria Thyssen-Krupp di Torino e dell’incidente occorso nel dicembre 2007, che costò la morte a sette operai e la conseguente pena esemplare inferta ad altrettanti dirigenti. Furono ritenuti responsabili – la pièce ne mostra le dinamiche e dietrologie con schietto disincanto – anche grazie alla gogna da parte dell’opinione pubblica, a cui la multinazionale cercò di sottrarsi, concedendo preventivi indennizzi anche agli operai, che non erano in turno e risarcimenti alle famiglie delle vittime bianche.
La drammaturgia ce ne restituisce una narrazione quasi epica, in cui riecheggiano i sette contro Tebe. Ma Tebe, qui, è quel leviatano, che sarebbe troppo semplicistico identificare nella sola logica di profitto della multinazionale; il vero mostro, forse, è quella società/idolo/ingranaggio, in cui ciascuno è fagocitato a modo suo, asservito anzitutto all’imperativo categorico del: “Devi perché devi”. In sottofondo il feuerbachiano rivisitato: “Dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei”. E non è un caso che l’operaio aspirante attore nel dar saggio della sua arte reciti proprio un passo di quel “Prometeo Incatenato”, che parla del “rubar il fuoco agli dei” per farne dono agli uomini e si conclude coll’eterno supplizio della rupe a cui viene incatenato.
Sono così, i sette “hypocrites”, che calcano la scena: come certi burattini reversibili dei teatrini giocattolo per bambini, diventano ora l’uno ora l’altro di dei due cavalli alati, che trascinano il carro/anima di platonica memoria. Così ciascuno degli attori interpreta uno dei responsabili e l’operaio dal corrispettivo “colore emotivo”, Claudio Migliavacca, ad esempio, Amministratore Delegato, è poi “padre”, ossia il capo turno che coordina i giovani della “linea di produzione n 5”; quel che si vuol dire, probabilmente, è che non ci sono “buoni o cattivi” a priori. Forse, quegli stessi si sarebbero comportati nella medesima maniera, peccando di superbia, superficialità o idealismo, se si fossero trovati dall’altra parte della barricata. Il tutto sul palco ampio e profondo dell’Out Off, come una bocca orribilmente vuota, spalancata e popolata, di volta in volta, di pochi essenziali elementi scenografici, duttili nel riadattarsi a seconda delle occorrenze, che, insieme ai video di Massimiliano Gusmini e agli effetti del light designer Giuliano Bottacin, ci proiettano in atmosfere avveniristiche e vincenti, in cui non ti aspetteresti mai che le cose possano anche non andar bene.
Una grande epopea umana, in fondo, ottimamente giocata sul versante registico anche grazie ad azioni corali e quasi coreografate dal forte impatto scenico. Un efficace switch on/off fra i toni algidi e performativi degli spregiudicati ambienti concorrenziali della logica del profitto e quelli apparentemente più prosaici e sanguigni narrati dagli operai bloccati a inizio turno e poi dai familiari, che ne piangono la perdita e che chiedono giustizia, sì, ma anche umana “vendetta”. Non c’è posto per alcun ideologico buonismo. Se al grido: “Delocalizzazione!” la classe dirigente si fa corpo e sangue e officiante di un delirante culto del profitto – salvo poi lasciar affiorare in controcanto brandelli di vite intrappolate, sé malgrado, appena la tensione si smorza nel ritmo derealizzante del rallenty -, specularmente gli operai ci sono restituiti nella loro complessità e miseria umana: da “Bimbo”, che ammette di accettare di fare un lavoro in condizioni di sicurezza più che precarie forse solo per la smania di quel guadagno, che gli possa restituire una rivalsa sociale al fratello che, piangendolo morto, non si vergogna di ammettere che l’auto nuova l’ha potuta comprare proprio coi soldi dell’indennizzo. Risuona il: “Sed non olet…”.
Una grande epopea umana, sì, ma senza i toni altisonanti o sensazionalistici del mito o di un certo teatro. Non lo consentono, in fondo, né la regia, che lavora per essenzializzazione formale, né la drammaturgia, a tratti pur un po’ pedagogica nell’accompagnarci, e neppure il calibro misurato eppur generoso degli ottimi attori in scena. Fors’è per questo, che non riusciamo mai davvero a lasciarci andare ad una tiepida commozione. Non c’è liberatoria catarsi, ma costante scomodo sgomento, in quel non potersi mai del tutto identificare né con gli uni, né con gli altri. Ma in fondo credo sia questo l’intento di questo “Acciaio liquido” che, come una colata di ghiaccio bollente, ci avvolge in una morsa urticante, costringendoci a grattar via, una dopo l’altra, le pelli morte delle nostre fragili certezze. Fino a quella figura umana, non a caso, forse, l’unica donna, nella cui composta figura grigia finalmente identificarci. Davvero bravi gli attori in scena: Federica Armillis (moglie), Angelo Colombo (Bimbo, Responsabile Innovazione, giovane uomo), Andrea Corsi (Ragno, Responsabile Comunicazione), Paolo Garghentino (Dandy, Responsabile Vendite), Giovanni Longhin (Rosso, Responsabile della Sicurezza), Francesco Meola (Attore, Responsabile del Personale), oltre al già citato Claudio Migliavacca.
24 > 29 maggio (Prima assoluta)
Spazio Verticale in collaborazione con Teatro Out Off
ACCIAIO LIQUIDO
di Marco di Stefano
ideazione, adattamento e regia Lara Franceschetti
con Federica Armillis, Angelo Colombo, Andrea Corsi, Paolo Garghentino,
Giovanni Longhin, Francesco Meola, Claudio Migliavacca, Giuseppe Russo
assistente alla regia Paola Panizza
scene e costumi Maria Chiara Vitali
light designer Giuliano Bottacin
video Massimiliano Gusmini (Mud) – otolab 2012
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