Cosa c’è di più straziante che veder venir meno ciò che si è sempre dato per scontato? Il passo che s’infiacchisce, il respiro che s’affanna e quelle che sono le nostre certezze che vacillano. E’ sgomento, come di fronte a una macchina di cui si è sempre padroneggiata la guida, ma che all’improvviso recalcitra; un cavallo imbizzarrito, o, peggio, estenuato, che ci fissa con l’occhio languido di un vecchio lupo alfa, mentre se ne va, coda fra le gambe, sotto lo sguardo feroce del nuovo capo branco.
Così è la vita. E questo racconta, in contro luce, “Il ritorno di Casanova” di Arthur Schnitzler, traduzione, adattamento e regia di Federico Tiezzi, in scena al Piccolo Teatro Studio di Milano fino a domenica 29 maggio. La drammaturgia di Fabrizio Sinisi e Sandro Lombardi, pure in scena con Alessandro Marini, ne restituisce tutto lo struggimento, l’incredulità, il disappunto, fino allo sgomento di un uomo, che non vuole arrendersi all’evidenza delle cose. Eppure c’è una leggerezza, nel porgersi di questo Casanova, che ricorda certi colori del coevo e compatriota Goldoni, di cui cavalca i regionalismi linguistici e una parlata, che si fa dialetto, nei momenti topici della passione non importa se per la donna o per la patria.
Son passati oltre vent’anni dacché era lui il grande Amatore di Venezia. Ma poi, caduto in disgrazia per questioni diplomatiche, ha dovuto riparare a Mantova, da dove lo consumava lo struggimento per la Serenissima; e ora che sta per avverarsi il sogno di un ritorno, una nuova avventura lo intercetta. A sbeffeggiarlo, il sembiante appetibile, ma austero della giovane Marcolina, che proprio non ne vuol sapere di lui, se non quando sarà presa con l’inganno; eppure la forza di questo adattamento teatrale sta in una riflessione costante sul tema della caducità e della vecchiaia. Più alluso, che raccontato, affonda acuto come una stoccata nelle fulminee riflessioni del cinquantatreenne, che continua ad incantarci con la disarmante meraviglia del bambino.
Racconta, Casanova. Seduto al tavolo di un salotto buono settecentesco, la tenuta di campagna in cui lo ospita Olivo probabilmente, racconta in prima persona lo svolgersi dei fatti: le sue stoccanti riflessioni, i turbamenti, le disillusioni. Racconta a un misterioso figurino avvolto in un pesante mantello di velluto blu, il viso coperto da una maschera all’uso di quelle feste veneziane, a cui ancora vorrebbe poter partecipare, e da un copricapo a tre punte. Mima e racconta quelle ultime vicende, in un gioco di tensione e reazione, che ben restituisce la lezione teatrale secondo cui è il servo a restituire maestà al padrone; similmente, qui, è l’atteggiarsi di quel “servo muto”, il suo intenzionarsi e protendersi, a rendere interessanti quelli che, diversamente, potrebbero parere solo i vaniloqui di un anziano. Lo s’intuisce fin dall’inizio che in qualche modo saranno l’uno l’alter ego dell’altro. Efficace la doppia entrata dei due: l’uno direttamente sul palcoscenico, l’altro, trascinando il suo passo un po’ ansante dal fondo della sala. Chi è il vero protagonista? Meglio: chi lo è nella vita e chi nella pièce? E poi: chi vincerà questo duello apparentemente sublimato e trasposto? Vince chi ottiene quel che desidera o chi, pur dovendo capitolare al ricatto, comunque non fa che ceder ciò che l’altro con le sue solo forze non è riuscito a ottenere? Ancora: vince chi di spada ferisce, con felino guizzo di un’età che pur non gli appartiene più, o chi di spada perisce, ma “caro agli dei”, come tutti quelli che muoion giovani senza conoscere lo sberleffo dell’età che avanza?
La regia di Tiezzi non ha tentennamenti e, nel rigore minimale di piccole strutture dalle altezze variabili, su cui poggiano opachi candelabri dai bracci ormai spogliati dalle candele, scandisce in effusioni di luce nitida la partitura non solo fisica dei due figuri. Un canto e contro canto in cui all’imperturbabilità dell’uomo in blu che sospinge la sua espressività nella sola postura, il volto imbalsamato da una maschera candidissima, si oppone un Casanova dal volto sbiancato non dalla moda soltanto, ma che pare a sua volta una maschera. Tanto più enfatizza, nella sua innaturale rigidità, tutto quel gorgheggio di voci che riesce a emettere nella foga della narrazione. Sembrano colori: verde invidia, giallo stizza, livido sgomento, rosso passione, fino all’argento del sonno ristoratore. A supportare il tutto, le percussioni di Omar Cecchi e Niccolò Chisci, oltre alla viola di Dagmar Bathmann, che sottolineano, nel rullo dei tamburi, nello sciorinar degli xilofoni o nel suono metallico e fulmineo dei piattini, i pensieri-chiave dell’anziano, le intuizioni indicibili e che pure gli scappan fuori dalle labbra come lucciole che improvvisamente si accendono per poi rispegnersi, ma dalla cui danza a intermittenza sortisce ciò che altrimenti lo stesso Casanova non potrebbe dire: neppure a se stesso.
Piccolo Teatro Studio Melato
dal 17 al 29 maggio 2016
Il ritorno di Casanova
di Arthur Schnitzler
traduzione adattamento e regia Federico Tiezzi
drammaturgia Sandro Lombardi e Fabrizio Sinisi
costumi Giovanna Buzzi, luci Gianni Pollini
con Sandro Lombardi e Alessandro Marini
percussioni Omar Cecchi e Niccolò Chisci
violoncello Dagmar Bathmann
in collaborazione con Conservatorio di Musica Luigi Cherubini, Firenze; Museo Nazionale del Bargello
produzione Compagnia Lombardi Tiezzi
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