Come si fa a rendere attuale ed appetibile un testo scritto nel 1603? Come, se parla di un mondo lontanissimo nel tempo e nel modo di vivere, benché ambientato nella nostra bell’Italia all’epoca, però, considerata un paese quasi esotico dal più British degli illustri drammaturghi classici? E come, soprattutto, se lo si porta in scena in un teatro come i Filodrammatici, che ha fatto dell’essere Shakespeare free il proprio cavallo di battaglia? Ma tutto si può, a teatro. Basta attualizzare i ruoli, snellire l’aplomb da compassato “Essere o non essere” e recuperare, invece, il vero spirito di Shakespeare. Attore, autore e “capocomico”, quasi, di una compagnia, che si esibiva in un teatrino di periferia, agli esordi, il Bardo fu un autentico interprete dello spirito del suo tempo, portando in scena tragedie cruente e feroci e commedie quasi boccaccesche, prima di quel Profanity Act, che, 1606, multava gli attori, che pronunciassero termini blasfemi o scurrili; così recuperarne il guizzo e smuffirne l’aurea posticcia è certo un’operazione, che va nella direzione di quel “Tradizione e tradimenti”, altra cifra delle stagioni del Teatro dei Filodrammatici. E se non nasce qui, quest’ “Otello Spritz”, che il duo Renato Sarti/Bebo Storti ha presentato a NEXT fin dal lontano 2012, di certo per le suddette ragioni ben s’inserisce nella stagione di questo teatro milanese, dove, debuttato martedì 7, resterà in scena fino a domenica 12 marzo.
Lo hanno fatto in molti, dopo il duo Sarti/Storti, da Davide Palla nella sua Tournée da Bar fino al recente adattamento di Carlo Decio, a dimostrazione che l’ “Otello”, più di altre opere shakespeareane, ben si adatta ad essere rivisitato e plasmato secondo l’occorrenza; e se a molti verrà in mente la trasposizione cine-pulp di “Romeo & Juliet” di Baz Luhrmann (1996, con un Di Caprio ancora giovane e maledetto, quanto mai ci si sarebbe aspettati da Romeo), a teatro, pare venga meglio il Moro. Quello che fanno, qui, Renato Sarti e Bebo Storti, al di là, certo, di quel far di necessità virtù, è non solo tagliare al minimo il numero degli attori/personaggi (restano solo Iago/Renato Sarti, Otello/Bebo Storti e Desdemona/Elèna Novoselova), ma cavalcare l’onda del meta teatro e dell’attualizzazione fino a fare del pubblico più che la semplice spalla a cui ammiccare negli a parte, chiamandolo addirittura a complice nella riscrittura del finale.
Iniziamo dal plot o, meglio, dall’antefatto. Invece che farlo narrare al solo Otello, nel celeberrimo e toccante discorso auto apologetico davanti al Doge, qui Sarti, Storti e la Novoselova ce lo anticipano col tono colloquiale del più classico dei meta teatri, appoggiati, con nonchalance, al sipario ancora serrato come al muretto di un bar nella piazzetta del più anonimo dei paesini del Nord Est. Hanno delle coppe in mano (che tanto sanno di “calice amaro”, anche se probabilmente già alludono allo spritz, tipico cordiale di quelle zone) e quello che raccontano è una storia non poi così diversa, anche se certo attualizzata. Non più Generale della Serenissima, qui Otello è un ex calciatore di successo, che sta scalando le cariche politiche, anziché i ranghi dell’esercito (ma c’è poi tutta questa differenza?). La sua storia, analogamente raccontata in quel famoso monologo, dirà della surreale, comica e di fatto graffiante vicenda di un bimbo di colore abbandonato dai genitori ad un Autogrill (come si faceva, un tempo, in estate, coi cani…); un pallone e il famoso fazzoletto (in questo caso, però, il ricamo non è di tenere fragoline, ma di uno scorpione velenoso) la sola dote lasciatagli dai genitori, e poi l’occasione della vita: la famiglia bresciana, che, facendosene carico, gli regala il lasciapassare nella cosiddetta civiltà. E’ tutta molto giocata, ironica e declinata in maniera congrua a queste premesse, la riscrittura che ne consegue.
Con ironia graffiante e dalla granatura analoga a certe partiture comiche, che strappano la risata senza per questo mai abbassare la guardia sul fronte della satira alla società e al (mal)costume, Otello, Iago e Desdemona vengono tratteggiati in modo impietoso e dissacrante. Senza mai perdere la leggerezza e l’impalpabilità di un teatro non recitato ma detto, sono il guizzo, l’ironia e l’affondo comico a farla da padrona e poi la battuta crassa, l’allusione o il dialettismo, quando non addirittura il dialetto, come capiterebbe di sentire, se ci si fermasse a bere uno spritz, a fine giornata, in un qualunque baretto veneto. E da bar sembrano anche le ciaccole: qualunquismo, populismo, razzismo (fino al paradosso che, il primo ad esserlo è lo stesso Moro oramai pervenu) infarciscono, senza vergogna, le vane chiacchiere di quei personaggi mediocri, quanto solo un’umanità reale saprebbe esserlo. Eppure non c’è dramma (né, tanto meno, melodramma) nella tragica scelleratezza di omuncoli così meschini e gracili da non potere che riderne. Nei momenti topici ecco le parole stesse di Shakespere, shakerate come si conviene agli ingredienti di uno spritz, che torna, ricorrente, nelle mani dei protagonisti quasi mistura sacrificale di un rivisitato sacro graal in versione pop. Ma, soprattutto, fedele alla lettera è la trasmissione dei messaggi forti dell’originale. Dalla riflessione di Iago sul buon nome (“Se uno mi ruba la borsa, mi ruba una cosa, che ha sì un certo valore, ma in fondo senza grande importanza […] Chi invece ruba il mio buon nome, mi porta via una cosa che non fa ricco lui e impoverisce me”) al monito contro la gelosia (“Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”, gli dice, dopo aver macchinato in tutti i modi affinché quel mostro gli si destasse in petto) fino alla presuntuosa superficialità della giovinetta Desdemona nel difendere strenuamente, forse poco più che per puntiglio, il Luogotenente Michele Cassio, innescando la terribile trappola del fedele Iago (che incombe, come la rete da pescatore per tutto il tempo sospesa sull’interno da bar glamour anni “80, in cui si gioca la piàce); di quest’ultimo Sarti interpreta bene la mimica strisciante dell’insinuatore, così come con non minor piglio, quasi da Duce, Storti impersona un Otello “baùscia” in modo esilarante. All’altezza dei due anche la Novoselova, in questa riedizione surreale, che la vede, lei russa anche fuori dal palco, rampolla di una famiglia di mafiosi dei Paesi dell’Est. Insomma, un lavoro arguto e spiazzante, che cavalcando la cifra secondo cui, a fine giornata la gente ha più voglia di ridere che di sorbirsi improbabili polpettoni in odor di purezza filologica, non rinuncia a portare in scena un classico, mostrandone, in controluce, tutta la sconcertante attualità fino a chiamare il causa il pubblico, facendogli toccare in modo giocoso, ma non per questo meno tangibile, la dimensione “politica” e la funzione responsabilizzante di quel teatro che non è solo borghese esercizio voyeristico.
Teatro Filodrammatici, Milano
Dal 7 al 12 marzo
“OTELLO SPRITZ”
da William Shakespeare | adattamento e regia Renato Sarti con la collaborazione di Bebo Storti | con Renato Sarti, Bebo Storti, Elena Novoselova | scene e costumi Carlo Sala | musiche Carlo Boccadoro | disegno luci Claudio De Pace | produzione Teatro della Cooperativa | con il sostegno di Regione Lombardia – Progetto NEXT 2012
...blogger per voyeristica necessità!
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