Il guitto e il Maestro: in memoria di Strehler

C’è un progetto curioso, nell’inizio di questa stagione teatrale milanese; e questo progetto curioso ha proprio a che fare, per certi aspetti, con la sua particolarità. C’è un teatro, a Milano – o, forse, ahinoi, c’era -, che da dieci anni funge da roccaforte di resistenza in un quartiere di confine dell’estrema periferia sud, dove l’aggregazione, anzi tutto, e l’arte sono ancora una delle poche piattaforme di ancoraggio. Il teatro in questione è Atir Ringhiera, che per dieci anni ha pulsato in locali assegnati dal Comune, ma che dal 3 ottobre è stato dichiarato in ristrutturazione; e il progetto in questione è “Maestro! Memorie di un guitto”, di e con Stefano De Luca, che di questa stagione avrebbe dovuto far parte. Cosa si fa, quando la casa comune viene meno? Ce lo suggeriscono perfino le favole: si bussa alla porta dei fratelli e si chiede ospitalità. È successo così che questo spettacolo, inizialmente pensato per la sala di via Boifava, sia stato poi ospitato al Teatro della Cooperativa (in un’altra zona di confine, ma all’estrema periferia nord), dove ha debuttato proprio il 3 ottobre, restando in scena fino al 5. Ma non si ferma qui: l’11 ottobre sarà al Teatro Libero di Milano, nel week end dal 20 al 22 ottobre allo Spazio Banterle, il 17 dicembre al Teatro Sociale di Como per chiudere in bellezza, il 21 dicembre, al Piccolo Teatro di Milano, omaggio ideale al ventennale della morte di Giorgio Strehler, Maestro del teatro (e non solo milanese) venuto a mancare proprio il giorno di Natale del 1997.

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Già, perché è lui, quel Maestro, a cui allude il titolo – impossibile non pensare al monito strehleriano: “Non chiamatemi Maestro…” -; mentre il guitto è l’attore, drammaturgo e regista Stefano De Luca, forgiatosi proprio nelle sue mani. Un atto d’amore, in fondo, questo; un appassionato ed appassionante monologo, che, senza mai scadere nel melò, riesce a mantenersi sempre nell’agile e sospeso istrionismo della Commedia dell’Arte, nello sberleffo buffonesco del clown e nel sapiente calibro del mimo, rendendo omaggio non solo al Maestro, ma a un intero modo di fare e di concepire il teatro.
È l’urgenza della narrazione, della condivisione e dell’incontro; è il bisogno di quell’umano ed ecumenico consesso, che solo chi lo abbia provato, può capire – e, se lo ritrovi, ti colpisce, ti emoziona e ti porta via come lo snocciolare di mostri sacri e miti pop, di musiche alte e di prosaicissime narrazioni, in un’alternanza accurata e mai noiosamente prevedibile. È l’evocazione dell’irrinunciabilità della figura magistrale; dall’ipostatizzato Jigoro Kano (nella prassi dell’inchino del giovane judoka, che impara fin da piccolo il rispetto per il maestro e che perfino il maestro ha un suo maestro a cui inchinarsi), al vivido e vivace Giorgio Strehler, così profondamente umano, da potere essere ricalcato nei suoi vezzi prosaici, ma anche nelle sue idiosincretiche virtù, con lo scanzonato bonario del ragazzino, che mentre fa il verso al professore, è proprio da lui che aspetta il gesto legittimante del riconoscimento. Una vicenda personale, in fondo – in controluce lo spaccato di un’epoca, che, coi suoi riti di passaggio, le sue mode e un qual certo trasformismo, sempre alla rincorsa di una mai totalmente guadagnata contemporaneità -, che scolora nel tempo sospeso dell’umano esperire, in cui, mutatis mutandis, ci si ritrova tutti lì a fare i conti ciascuno col proprio provino personale – ciascuno con la propria spavalda indulgenza di fronte allo iato fra quel che vorremmo e che temiamo di non poter essere.

Non solo la storia è ben scritta – col ritmo giusto e la giusta alternanza di registri, senza scadere in sentimentalismi lacrimevoli, ma, anzi, spesso guizzando nella facezia vivace; per tappe, dalla volta in cui, a dodici anni, uscito da scuola per andare a pranzare con le polpette a casa di nonna e finalmente concedersi il rito di passaggio della lettura del Corriere dei ragazzi, e non più del Corrierino, quasi per caso s’imbatté nel primo bruciante invaghimento platonico e con esso nel teatro e nella cometa di Halley… che avrebbe visto solo dieci anni più tardi nel giorno in cui sosteneva il provino di ammissione alla Scuola del Piccolo, allora diretta proprio da quel Giorgio Strehler –; ma, ancor più, giusti sono i gesti, i ritmi e le pause dell’attore. Ché il teatro non è letteratura, ma corpo, azione, fisicità e presenza scenica: come un quadro – o come una delle importanti aree mozartiane, che non si vergogna di somministrarci, magari subito dopo alla versione strumentale della sigla di “Sandokan” -, ha bisogno dei suoi bui, delle sue pause e dei suoi silenzi. Ecco, cosa fa il guitto: diverte il suo signore e s’inchina di fronte a lui, tributandogli rispetto affinché il mondo veda; ma chi lo sa se, alla fine, non sia proprio quell’umana concessione del principe, che da lui si lascia omaggiare e divertire, a sancire la reale investitura del suo umile servitore.

Francesca Romana Lino

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novembre, 2024

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