L’intimistico e toccante tributo di Corrado D’Elia all’uomo e Maestro Giorgio Strehler

“Non chiamatemi Maestro”, in scena al Teatro Libero dal 27 giugno al 15 luglio, è l’intimistico e toccante tributo, che Corrado D’Elia rende al Maestro e uomo Giorgio Strehler. Sì, ma anche al Teatro – quello con la ‘T’ maiuscola – e alla passione che non può non pervadere chi di teatro si occupa e si pasce per l’interminabile tempo di un’intera esistenza. Forse è proprio questo – quest’indomita passione comune, che risuona nelle anime di chi il teatrante scegli di farlo per mestiere – che ha spinto D’Elia ed i suoi ad imbarcarsi in tale impresa. Non la trasposizione teatrale della biografia del maestro triestino – non sarebbe stata, del resto, quella del monologo, la soluzione narrativa più adatta -, ma una pur attenta e precisa ricostruzione di quello spleen, che agitava il grande regista, “il Maestro dai capelli bianchi e sempre vestito di nero”, come lo ha ricordato lo stesso D’Elia.

Ed ecco che la scelta fatta è stata quella di spiluccare fra l’enorme mole degli scritti privati – “Strehler? Un grafomane!”, commentava lo stesso Direttore Artistico del Libero a fine spettacolo: “Ha scritto a tutti: vivi, morti… perfino a Mozart!” – per trarne spunti di quella biografia dell’anima, che è poi venuto a soffiarci, a fil di labbra e con la sua profonda voce da bluesman, su un palcoscenico abitato solo da uno sgabello, un leggio e tutta la comunicatività – che fa breccia -, secondo una formala più volte cavalcata. Già, ma questa volta, in più, c’era intanto la presenza del pubblico, accoccolato ai lati del palco, a rendere davvero quell’atmosfera intimistica e confidente, accentuando – e restituendocelo con una nota di ancor maggior realtà e condivisione -, quel progetto strehleriano di un ‘Teatro d’Arte per tutti’.

E poi la musica – eterno alter ego, a cui D’Elia non rinuncia, nei suoi ‘Album’ – e, in più, qui, la luce, altro elemento prezioso nelle regie strehleriane – e, qui, invocato come uno delle cose che più appassionava e commuoveva il maestro nei periodi di maggior affaticamento/fragilità emotiva -, il cui utilizzo nell’improvviso accendersi, smorzarsi, colorarsi o farsi enfasi, ora, ora neutro testimone, contribuisce in modo efficace al riverbero dell’emozione in platea. E poi lui, un Corrado D’Elia scalzo – come ogni ‘mestierante’, quando calca le assi sceniche nell’esercizio del proprio ‘gioco di bottega’ – ad intrattenerci per un’oretta.

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Dapprima solo la sua voce, al buio: “Ho in mente un grande spettacolo per raccontare il teatro…” e la luce che l’illumina nell’atto di raccontare di un messo con in mano il decreto che avrebbe restituito la pensione a Goldoni. Già, ma troppo tardi: il drammaturgo è morto appena prima… Così il racconto naturalmente declina nella Wethanshauung – di Strehler o del D’Elia poco conta: stante la volutamente perseguita sovrapposizione dei due -: “Il mio mestiere è raccontare storie di altri ad altri: non posso non raccontarle. Se non ci fosse un palco di legno, le racconterei per strada. Se non ci fosse nessuno, le racconterei a me stesso. Racconterei anche muto, di spalle, al buio, in un sottoscala. […] Anche a venti metri… su una sedia… sospesa su una piazza”. E, qui, introduce l’elemento adrenalina: uno dei moventi dell’attore: “Certo che quell’uomo può cadere! Ha paura, ma non lo fa vedere. Se non si capisce questo, non si può capire il teatro…”.

E poi via, a sbocconcellare assaggi di questa biografia dell’anima: dall’infanzia – “mia madre… eterno violino fra le braccia” ed un padre “come un’ombra lunga e protettrice, che m’insegna a fischiare” – all’ arrivo a Milano – città caotica e forse un po’ inospitale, ma che poi ha imparato ad amare, nella sua frenetica laboriosità -; dalla fondazione del Piccolo Teatro – con Paolo Grassi – alle sue regie e alle sue donne – sulla scena e nella vita: Valentina Cortese e la Lazzarini; la Jonasson…- fino alla lettera al critico Roberto De Monticelli, in cui si schernisce di quel titolo di ‘Maestro’, rivendicando quello di ‘partigiano del Teatro’, ma preferendo, forse, quello di ‘Mestierante: […] trucchi compresi”. Ed è proprio qui, alla fine, che tutto quell’amore commosso, che nelle sezioni precedenti ce lo ha fatto vedere vibrare di umana passione teatrale ed altrettanto umano struggimento per la sua condizione di umana solitudine – la solitudine del regista: “Nel momento, in cui la scintilla scocca e il teatro comincia, noi registi andiamo via…” – si fa voce piena e condivisa, di fronte al critico, che, per altri aspetti, sembra sperimentare quella stessa solitudine.

Sarebbero ancora moltissimi, gli stralci da citare – e con cui accarezzare le orecchie ed il cuore, di noi amanti di questa “macchina di carta, così complicata e così fragile”’ -; ma a me piace concludere con le parole scritte dallo stesso Strehler alla Cortese, a commiato de “Il giardino dei ciliegi”: “Questo spettacolo finisce qui e noi con lui: ma il Teatro non finisce”. O, ancora: “Il Teatro come una piccola scheggia di memoria sepolta”, “Il Teatro come ineluttabile”. Ma, soprattutto, mi piace riconoscere al pacato e struggente spirito con cui Corrado D’Elia si è messo a totale servizio del Teatro e di uno dei suoi Maestri più rappresentativi, la generosità, il coraggio e la bravura nel farci riscoprire cotanto protagonista della storia del teatro dal dopoguerra e, in più, in una dimensione che guadagna in passione umana, quel che inevitabilmente è costretto a sacrificare in esaustività storiografica. Ma poi la passione è tutto, specie in questo mestiere: e forse avercene restituito lo spleen, l’umanità, l’emozione – come quella data delle note della chitarra pizzicata e delle altre melodie, che sopraggiungono, ad ondate, durante il recital, a rintuzzarci il pathos -, è stata la scelta più efficace.

Francesca Romana Lino

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