Romina Mondello Alice psyco(go)tica

E’ in versione ospedale psichiatrico, l’ “Alice” in scena al Tieffe Menotti ancora fino a domenica 23 marzo. La regia di Matteo Tarasco, infatti, che vede Romina Mondello calata nel panni dell’Alice di Lewis Carroll, ci offre uno spaccato tutt’altro che fiabesco e pacificante della celebre protagonista intenta nel suo percorso iniziatico di crescita.

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La storia è quella che conosciamo: la ragazzina che si addormenta e, nel sogno, incontra una serie di personaggi simbolici e figure fantastiche – il Bianconiglio, il Cappellaio Matto, la Regina di Cuori, la Regina Bianca, la Lepre Marzolina… e, ancora: Humpty Dumpty, il Leone e l’Unicorno o i gemelli Tweedledum e Tweedledee -; ma ben differente ne è la collocazione e, soprattutto, la restituzione scenica. E’ l’idea drammaturgica alla base della scelta scenografica a fornire la chiave di lettura. Davanti a noi lo spaccato di una squallida stanza d’ospedale psichiatrico d’altri tempi – pareti finemente imbottite e una generalizzata sensazione di sporcizia e squallore -, che ci viene mostrata come dall’alto. Così il fondale si trova ad essere quel pavimento di assi sconnesse, da cui ha buon gioco il filtrare delle luci di alcune scene: la calda luminosità dell’alba, ad esempio – o la gelida intermittenza sconnessa delle scene psicotiche o dell’ elettroshock – che, come attraverso voyeristiche fessure di una veneziana dischiusa su un mondo proibito, riverbera direttamente negli occhi del pubblico: e lo fa testimone. – E’, questa, una delle cifre drammaturgiche ribadita anche dall’allusione di Alice: “Ci sono delle persone, nel buio, che ci guardano…” o dallo stornello di chiosa, alla ribalta: “Se noi ombre vi abbiamo allarmato o toccato…”, quasi a dare un senso forse pacificante a tutto ciò: quanto meno una sorta di morale della favola, per quanto inquietante, come spesso le favole del resto sono -. Inizia alle spalle di Alice, quest’asse ideale di luce filtrata, in quel mondo altro e oltre – forse quello di una normalità -, che semplicemente relega e se ne chiama fuori; non a caso passa da sotto il letto – da dove spesso compaiono e scompaiono i personaggi -: quanti fantasmi e mostri immaginari, l’infanzia c’insegna, si annidano, spaventosi, sotto i letti dei bambini… E se il punto d’estinzione è lo sguardo planare del pubblico – dall’alto, come dal punto di vista di dio -, allora forse la dialettica si gioca fra quel mondo degli inferi, che la rinchiude e relega, la pazzia – o anche semplicemente il suo attraversamento evolutivo – e, per converso, la testimonianza che ne rende il teatro: che non pretende di spiegare, ma semplicemente riverbera.

Al centro il letto – in verticale -, ad occupare, com’è facilmente intuibile, in un contesto ospedalizzato, il posto di predominanza; accanto solo l’armadio – con le ante a specchio, nella finzione, anche se poi di fatto si tratta di una lastra di vetro sotto cui scivolano o da cui s’insinuano il Bianconiglio ed Alice -, e, poi, un realistico gabinetto incrostato da una ruggine atavica, la finestra, a sinistra, ed un altro spazio d’incursione, a destra; dove pure, a fondo scena, la porta d’ingresso alla stanza. Il tutto si sviluppa in senso vertiginosamente longitudinale, in modo da non dar tregua allo spettatore, costantemente messo in una posizione scomoda ed alienante anche a livello di pensiero.

Quel che succede, infatti, è che il pensiero cortocircuita. Alice è una ragazzina che si sveglia – scarpe da tennis e camicione legato sulla schiena – nel letto di una clinica; non sappiamo perché sia lì. Più di un personaggio glielo chiede, ma lei instancabilmente risponde di essere lì da sempre e di non essere pazza. Cullata dalla luce spesso intermittente – quasi a restituircene le sconnessioni psichiche – e dal ripetersi di una musica carillon – l’età infantile: che sta per lasciare… -, proietta ed agita i suoi fantasmi da età di passaggio.

Il primo che incontra è il Cappellaio Matto/Salvatore Rancatore – versatile, poi nell’interpretare anche il Brucaliffo new age o Humpty Dumpty versione Fonzie; il multi ruolo, del resto, è una necessità, che tocca anche le altre due attrici -: sotto le mentite spoglie forse di un medico, cala furtivo dalla scala che risale la parete: con quella luce/proiettore in mano a significare, un po’ la pila con cui i dottori testano i riflessi visivi dei pazienti ed i loro stati di coscienza; un po’ il tributo al ruolo di protagonista sotto ad un proiettore, che pur non arriva mai ad illuminarla davvero. E poi il Bianconiglio/Federica Rosellini : un’infermiera che affiora dallo specchio dell’armadio – Narnia… -, allarmata per il proprio ritardo e alla ricerca del guanto bianco perduto: lo ha Alice, ma, da adolescente dispettosa, non sa se ha voglia di restituirglielo… Poi agguanta la bambola e s’insinua dietro allo specchio: “Ho una mia teoria… – le dice -: che in quel mondo ci siano le stesse cose… ma alla rovescia”. Che strano pensare che una ragazza di 17 anni e 6 mesi, come poi rivelerà, si accompagni ad una bambola sbrindellata: così capiamo che si tratta di un transfert, reso ancora più evidente dal fatto che la pozione del “Bevimi!”, la ingozza propria a lei.

ALICE1“Chi sei, tu?” e tutta la teoria del ‘nome’ come attribuzione di significato e di senso; il riconoscimento – legittimante – che solo lo sguardo dell’altro può offrirci: queste le tematiche carrolliane che si agitano sul palco – nei contorti e volutamente faticosi movimenti, a cui la sfidante scenografia costringe i personaggi. Fra i tanti, la Morte/Odette Piscitelli – con tanto di mannaia -: lo spettro forse più pauroso di tutti – è esperienza comune –, eppure quello che con cui meglio si concilia Alice: quella le offre in pegno la sua ascia e, lei, si sfila dal collo l’etichetta ‘fragile’ e ne cinge quel povero diavolo, in fondo. Un susseguirsi di personaggi, simboli, situazioni, spunti, provocazioni – la densa profondità del testo di Carroll -, che qui si sceglie di rendere attraverso il corto circuito di elementi contraddittori: lo squallore del manicomio – quello prima della Legge Basaglia -; la forza salvifica della poesia7fantasia; il candore della ragazzina – “Facciamo finta che eravamo re e regine…”, propone in gioco, nel suo delirio di negazione -; la componente erotizzante del testo di Carroll – voci di una sua presunta pedofilia –, palesata in quei corpi sempre un po’ troppo malamente svestiti, perché non ci sia un intento preciso a monte: la scena, poi della dominazione lesbica della Regina Rossa, scioglie eventuali dubbi: ma non è la sola…

Eppure, da tutto ciò, Alice sembra uscirne viva. Certo: non è più la stessa del mattino; ma, in fondo, la Mondello sa restituircela ancora intatta: come chi sia scesa a patti con quei fantasmi di sogno, ma senza sprofondare nella feroce pragmatica del perbenistico underground.

Francesca Romana Lino

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novembre, 2024

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