Io, inviata da “Fabbrica di Guerra”

Non è propriamente uno spettacolo, “Fabbrica di Guerra”; anzi lo spettacolo “Fabbrica di Guerra” propriamente è solo l’epilogo di un progetto a più amplio respiro, che, partito dall’idea di voler rilanciare l’economia del territorio – siamo nel biellese: terra tradizionalmente consacrata alla pastorizia della pecora autoctona, ai filati e, quindi, alla loro lavorazione in fabbrica… -, escogita questa modalità partecipata per coinvolgere e sensibilizzare la popolazione, creando un movimento ‘dal basso’, come si usa dire – con tanto di crowdfounding.

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L’idea è semplice: “Il Contratto della Montagna, nato da un’idea condivisa con ANPI provinciale di Biella per celebrare il 70° della Resistenza e della Liberazione, è un progetto che ha radici proprio nel territorio in cui il Contratto è stato storicamente firmato ed aspira ad  essere, in qualche modo, un modello atto ad offrire strumenti di riflessione per affrontare la crisi e proiettarsi  nel futuro“, spiega Manuela Tamietti, vice presidente di Storie di Piazza, nonché direttrice artistica e regista dell’associazione culturale entro cui ha preso corpo l’idea. Senza scordare che, questo, è stato anche un territorio caldo, durante la Resistenza – sia per le sue valli impervie, che per la vicinanza col confine; oltre che, ovviamente, per l’irriducibile spirito partigiano di molti dei suoi abitanti. “Il progetto racconta la Resistenza Biellese nei suoi aspetti d’importanza certamente locale, ma di fatto con forte impatto nazionale. Nello specifico si vuole portare a conoscenza quel Patto rivoluzionario – il Contratto della Montagna appunto -, effettivo dal giugno del ’44 alla fine delle ostilità e che fu un primo insieme di accordi tra partigiani, operai e industriali a stabilire equità salariale tra uomo e donna. Così pensiamo che ben si adatti a porsi come modello per sviluppare riflessione in un momento storico critico come quello dei nostri giorni” – come a dire che, forse, quello spirito anti particolarista ed anti individualista, che vide gli operai far fronte comune non tanto ‘contro’ un antagonista, quanto ‘a supporto e tutela’ dei propri sacrosanti diritti e delle conseguentemente legittime rivendicazioni, sia ancora la sola via additabile e praticabile per superare la crisi.  E, ancora: “Una conquista importante, che è poi venuta meno alla fine della guerra ed è stato necessario fare altre lotte di rivendicazione per riconquistare questo diritto – ottenuto, nuovamente, nel 1961 sempre nel biellese”.

le operaie incrociano le braccia: "Sciopero!"
le operaie incrociano le braccia: “Sciopero!”

Questo, rapsodicamente, quanto a monte. Poi un instancabile lavorio che, da giugno e per tutta l’estate, ha alla fine saputo concretarsi nello spettacolo “Storie di guerra”, andato in scena il 12, 13 e 14 settembre nell’ex lanificio Botto di Miagliano (Biella).
Le tappe: un progetto di crowdfounding, come si diceva, e laboratori a partecipazione gratuita – fra luglio e agosto: di recitazione, ma anche legati  alla tradizione gastronomica, nonché a costumistica e sartoria -, il tutto nell’intento di coinvolgere e motivare l’adesione del territorio. E finalmente, nello scorso week end, l’evento corale di teatro partecipato, in cui le diverse anime – 60, fra attori e animatori; e poi anche il pubblico – sono confluite in quella che di fatto è stata una rievocazione delle condizioni lavorative dell’epoca, sotto il duplice giogo di un padronato non ancora schermato da intermediazioni sindacali, aggravato – per di più – da una forse colposa connivenza con un regime votato alla sola eccellenza della produttività quantitativa, pur a discapito di qualsiasi altro parametro – quali qualità dei manufatti, condizioni di lavoro, tutela del capitale umano.

Trittico di donne: "Silenzio, il nemico ti ascolta!"
Trittico di donne: “Silenzio, il nemico ti ascolta!”

Drammaturgicamente il tutto è stato reso attraverso un ben riuscito gioco partecipato, in cui al pubblico non è semplicemente stato staccato un biglietto, ma gli si è consegnata una tessera annonaria e, questa, alla mano, lo si è accompagnato attraverso quelle che sarebbero stati gli step dell’approccio in fabbrica, all’epoca: l’accoglienza del generale che, sfilando algido sotto il cartello: “Coloro che io preferisco sono quelli che lavorano duro, secco e sodo, in obbedienza e possibilmente in silenzio” – firmato: Mussolini -, ha immediatamente ricordato il dovere di devolvere “l’oro alla patria”; sono seguiti un primo luogo per la consegna di indumenti, laddove i propri non fossero adeguati – con tanto di paternale sul ‘decoro nel vestire’, specie al femminile… -, il colloquio/reprimenda da parte del direttore della fabbrica – contro le ‘signorine’, ricordando loro che erano tollerate, lì, solo per lavorare per la Patria e che abbandonassero ogni velleità romantica e ogni pensiero, che le avrebbe potute distogliere dal lavoro; contro i ‘signori uomini’ sfuggiti alla chiamata di leva, minacciando di mandarli al campi di lavoro, qualora si fossero dimostrati lavativi, sobillatori o, peggio, rivoluzionari. Poi il momento della mensa – cacio, polenta e fagioli: in razioni volutamente rosicate – a conclusione della fase partecipata. Sono seguite le scene recitate: il confronto/scontro fra gli operai sobillatori ed il padre di famiglia restio  – che solo il pensiero dell’entusiastico affetto del figlio per lui, nonostante egli non fosse in grado neppure di sfamarlo in modo adeguato, lo avrebbe convinto a vincere le proprie pavide resistenze… -, il trittico delle donne – l’operaia gravida, la donna risoluta e battagliera e la sprovveduta ragazzetta  di famiglia evidentemente allineata col Fascismo e di origini venete (il riferimento è all’effettiva immigrazione dal Veneto, dopo l’alluvione del Polesine) -, in cui ben affiora il potere abbruttente dell’odio a cui la guerra trascina: dove non si è più capaci di guardare in faccia all’interlocutore senza confonderlo con la maschera, che il ruolo che ricopre ci impone a calcargli addosso; la scena – mista di attori e comparse – della chiamata allo sciopero e, da ultimo, la rievocazione dell’impegno partigiano della donna, che aveva imparato a battere a macchina solo per poter così prestare i propri servigi alla Resistenza, redigendo quel Contratto della Montagna discusso e poi firmato nella scena conclusiva.

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Quanto alla drammaturgia, Fabio Banfo – coregista, insieme alla Tamietti, oltre che coautore e coordinatore di questa drammaturgia a più mani – ci dice: “Fabrica di Guerra: la bontà dell’operazione drammaturgica  sta nell’essere riusciti a trasformare del materiale di tipo storico in scene di vita vissuta, con veri e propri personaggi e di aver coinvolto il pubblico in una narrazione fino a portarli a farne parte, come ad esempio nella scena dello sciopero. Un altro valore forte di questo spettacolo è il coinvolgimento della popolazione del posto, che ha partecipato sia nella produzione, che nella recitazione dello spettacolo, con entusiasmo e serietà da veri professionisti“.

E, in effetti, sì: il lavoro mi è sembrato avere una buona temperatura emotiva e, forse complice anche il fatto di essere ‘sul territorio’, mi è parso essere riuscito a coinvolgere bene il pubblico – un momento per tutti: quello in cui, dato il là ad una canzone che non conoscevo, ma evidentemente della tradizione locale, la gente si è unita spontaneamente nel canto. Notevole è anche tutta la ‘macchina’ – organizzativa, promozionale, tecnica, artistica e di coordinamento -, che, pur avvalendosi di non soli professionisti, ha saputo imbastire e far rivivere per tre serate un evento lungo ed articolato, giocato negli spazi immensi di un reale ex lanificio dismesso: con tutti gli oneri e le difficoltà del caso.
Poi probabilmente sì: il lavoro sarebbe ancora un po’ da sforbiciare – anche perché la scena clou, che mastica un lessico inevitabilmente più complesso, arrivando a coronamento di un percorso forse un po’ troppo lungo, rischia di essere penalizzata da un’attenzione forse non più così vivace come meriterebbe… A parte questo, senz’altro un’esperienza coinvolgente, ‘nonostante’ la non professionalità di molti degli attori. Anzi: probabilmente ‘grazie’ a questa. Infatti, avendone potuto seguito personalmente i vari step,  credo che questo sia un valore aggiunto: non solo perché restituisce meglio la coralità e lo spirito di partecipazione del territorio, ma perché è riuscito a trasmettere il ‘sacro fuoco’ del teatro anche a gente, che, accostatasi quasi solo per gioco o curiosità, ha invece scoperto un interesse personale e vocazionale, quasi, fino a quel momento insospettato. E questo significa che non solo lo spettacolo è arrivato al pubblico; ma che l’intero progetto –  lo spettacolo è stato realizzato grazie al contributo di CRT di Torino, CRB di Biella e del contributo del bando della Presidenza del consiglio – ha sortito il suo effetto – complici anche, pleonastico dirlo, la professionalità e generosità delle persone coinvolte.

Francesca Romana Lino

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