Giuliana Musso mattatrice nella ‘Fabbrica dei preti’

Non solo uno spettacolo sui preti – con tutte le difficoltà, i silenzi e le auto subite privazioni del farsi prete all’interno di seminari dalla disciplina rigida e non meno farneticante di quella di una caserma… Ma uno spettacolo su chi prete lo è poi effettivamente diventato nel 1965 – ante Concilio… – e si è trovato a fare i conti con un mondo, che stava cambiando in modo farneticante – trascinando, nel suo delirio iconoclastico, spesso anche le fragili certezze di uomini troppo piccoli, di fronte al ferreo rigore e all’incommensurabile empietà, di un sistema-Chiesa, che non sembrava voler cedere il passo allo spirito del tempo.
Questa, in fondo, la tesi de “La fabbrica dei preti”, in scena all’ Elfo Puccini di Milano fino al 13 gennaio, in cui una sorprendente Giuliana Musso, vestiti gli abiti grigi di un ipotetico narratore neutro, entra ed esce con estrema disinvoltura dai ruoli di tre sacerdoti  dalla caratterizzazione quanto mai vivace, godibile e credibile. Ci raccontano la loro esperienza di formazione seminariale, sì, ma poi di tutta una vita, spesa a fare i conti con quelle cicatrici bambine, che – spesso… – non si son più tolti di dosso. Tutt’attorno una cornice scenica fatta dell’arcigna declamazione delle prescrizioni inossidabili, a cui dovevano attenersi i seminaristi – in tutto disciplinati: fino al parossismo che l’obbedienza valeva più del comandamento stesso -, ma anche della proiezione di filmati in bianco e nero, attestanti gli spaccati documentali della vita nei seminari o gli abiti identificativi di quelle figure – la tonaca indossata fin da giovinetti, in quegli anni dai seminaristi, e poi i vestiti caratterizzanti gli altri personaggi: l’abito da sposo dello ‘spretato’, la tuta da lavoro del prete operaio e, in qualche modo, lo stesso abito indossato dalla Musso. Sono i pantaloni di panno grigio – scampanati, all’uso di quegli anni “60/”70… -, il gilet con sotto una significativa camicia dalle maniche ‘rimboccate’, che vestono sia il prete anticlericale – liberatosi, sì, ma a costo di 30 lunghi anni di esperienza in Sud America… -, che la stessa Giuliana Musso: mattatrice interprete di se stessa – e del suo teatro di narrazione e indagine.

la fabbrica dei preti

Non si risparmia , l’attrice friulana, nel prodigarsi a raccordare gli stralci delle tre autobiografie, contestualizzandole ed alleggerendole con una recitazione assolutamente realistica, ‘bonaria’ ed interlocutiva – come spesso sa essere, il modo di porgersi dei preti di paese. Non ha paura di annoiare il pubblico con la sia pur essenziale ricostruzione dei fatti pre e post conciliari, perché sa che non sta facendo cronaca, ma una politica reale – e partecipata -, che se la porta a citare il celeberrimo ‘discorso alla luna’ di Papa Roncalli, non è per un edulcorato senso di nostalgico romanticismo, ma per sottolineare quanta forza – dirompente ed innovativa – ci fosse in quell’uomo ‘buono’, che la storia sembra spesso riconsegnarci come se fosse stato soltanto un nonnetto paciocco. E così non ha paura neppure di provocare. Prima di calarsi dentro e fuori – ma solo in senso figurato – agli abiti di quei preti e della voce perentoriamente assertiva, che – scandita nella lettura a leggio, nel buio profondo, ma illuminante di tre fari convergenti sull’asettico lettore -, sciorina le imposizioni normative della giornata tipo nel seminario, trova il tempo di graffiare: “Prima, però, togliamoci il cappello e fermiamoci a pregare per tanta manovalanza sacrificata a rovinata in tutti questi anni e secoli”.
Liberamente ispirata a “La Fabriche dai predis” di Pre Toni Beline – Don Antonio Bellina -, la drammaturgia della Musso porta in scena testimonianze di un testo non più in commercio, dicono, per la sua ‘scomodità’. E lo fa con tutta la delicatezza, il garbo, ma anche l’incisività, di chi sa il fatto suo – e non ha bisogno di spingere sul registro di dissacrazione o provocazione sterile gratuita. E lo fa con una tal maestria attoriale, che sembra proprio di vederli, nella mimica corporea e nella prossemica attenta e credibile, quei tre sacerdoti: tre uomini, in fondo, con le loro caratteristiche e fragilità, al punto tale che, quando si rivolge al pubblico: “Ma vi sembro un prete?”, a nessuno passa lontanamente in mente di rispondere alla donna Giuliana, ma per tutti il senso della domanda è: “Vi sembro un prete ‘tradizionale’?”. Magnifico: la magia di un teatro, che, con poco, riesce a restituirci tanto.

fabbrica_filmCerto, poi uscendo da teatro mi vien da pensare: “Ma quanti di quei disastri umani, che il testo imputa alla sola formazione ecclesiale, non erano, invece, appannaggio di una ben specifica ‘classe’ socio-culturale dell’epoca – e, più in generale, di un modello educativo certo differente da quello di noi figli dei figli dei dei fiori?” Chi non ricorda “L’attimo fuggente”? La collocazione cronologica, più o meno, è quella. Certo, differenti l’estrazione geografica e socio-culturale – che ne giustifica un minor rigore. E però: quanta impietosa disciplina, anche nell’esclusivo college inglese? Quanto i quattro pilastri di Tradizione, Onore, Disciplina e Eccellenza, in effetti, si può dire che fossero poi così lontani dalla regola seminariale del Tridente – “Non toccare, non toccarsi e non farsi toccare” -, in linea di principio? E, soprattutto: chi, di noi figli degli anni “60/”70, non ricorda gli assertori cartelli: “Non toccare!”, andando in giro per negozi, in barba ad un oggi, in cui tutto è ‘touch’: dagli schermi di i-phon, fino ai centri commerciali – dove sembra che, se una cosa non puoi prima testarla/tastarla, non avrai mai gli strumenti per capire se ti piace.
Così: quanta tenerezza ci fa la confidenza del prete ruspante e risolto: “A me non mi è mai mancata una donna. No. A me quel che mi è mancato – e di cui li accuso – è il rapporto col mondo femminile: con la mente e il cuore delle donne…”
E così in quell’ultimo – suggestivo… – abbraccio fra la Musso ed una tonaca dal peso specifico tale, che ci sembra abitata da un corpo – un po’ michelangiolesca Pietà ed un po’ umana compassione – vorremmo poter abbracciare certo tutti quei preti depauperati della loro specificità umana, affettiva ed individuale – per poter diventare ‘matite nelle mani di Dio’, come diceva Madre Teresa -, ma anche un po’ ciascuno di noi: esseri fragili, che come piccole api furibonde – per citare un’altra donna, la Merini.. – c’involviamo in spirali di divieti, che anziché proteggerci, ci allontanano.

E la personale della Musso prosegue: all’Elfo Puccini di Milano con “La Fabbrica dei Preti” fino a lunedì, 12 gennaio e poi “Nati in casa”dal 13 al 18.

 

TEATRO ELFO PUCCINI
sala Fassbinder | 8 – 18 gennaio 2015
mar-sab: 21:00 / dom: 16:00
GIULIANA MUSSO
produzioni La Corte Ospitale

Francesca Romana Lino

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