Dire Volterra, nell’ambito teatrale, significa senz’altro riferirsi alla Compagnia della Fortezza e al Festival di Volterra – in quest’ordine o pure invertendo i fattori: ché, tanto, il risultato non cambia…
E dire Compagnia della Fortezza non può non rievocare quegli spettacoli caleidoscopici e viscerali, che puntualmente animano – invadono, ma con tutto lo spirito pacifico, giocoso e catartico del caso – gli occhi, le fantasie e i cuori di altre piazze italiane: qui a Milano del Tieffe Menotti, ad esempio, nelle ultime stagioni.
Che c’è di strano? Da sempre il teatro italiano è ‘teatro di giro’… Già.
Poi però forse non tutti sanno che ne La Fortezza – la cittadella fortificata, che occupa la parte alta di Volterra – è ospitato anche il carcere e che la compagnia di cui stiamo parlando nasce – correva l’anno 1988 – come progetto laboratoriale all’interno di questo luogo di detenzione. Sotto la guida di Armando Punzo, che lo concepisce immediatamente come progetto volto all’esito artistico – subordinando a questo qualsiasi altro intento ludico o rieducativo, che inevitabilmente serba in sé, la pratica teatrale -, presto si trasforma in un proclama: portare il teatro stabile in carcere. E la fecondità di questa compagnia mostra come costanza e ostinazione siano requisiti irrinunciabili dei sognatori seriali e non utopici.
Così partiamo anche noi, la mia cagnolona ed io, alla volta di Volterra: perché se la mia prima volta al Menotti, un paio di stagioni fa, è stata un’esperienza folgorante – quel “Mercuzio non vuole morire”, libero riadattamento di “Romeo e Giulietta”, così forte e coinvolgente da essere spesso ricordato come “Mercuzio non deve morire” -, va da sé che viversela nel luogo in cui quegli spettacoli nascono, deve avere un portato emotivamente esplosivo. Così partiamo anche noi, la mia cagnolona ed io, per una roccambolesca semi traversata dello stivale – la Twingo arranca, sulle pendici della Cisa, mostrando lei pure non disprezzabili doti di perseveranza e tenacia. Fino alle giravolte rampicanti, che ci portano finalmente a destinazione. Certo, il Fastival non è solo la Compagnia della Fortezza. Il battesimo del fuoco, la sera stessa, è con “Pilade/Pasolini” – all’interno del Progetto di teatro collettivo degli Archivio Zeta. Il luogo è suggestivo – il Camposanto vecchio di Montecatini Val di Cecina – e anche l’ora scelta per la rappresentazione ha un suo perché – “Al tramonto/vicino all’infinito”, recita il sotto titolo. Così si aggirano – come due spettri – Pilade/Gianluca Guidotti e Atena/Enrica Sangiovanni. Incuranti del gruppo di spettatori, che li segue affascinati – complici anche il flauto Elisa Cozzini, la viola di Francesco Tomei e la bimbetta dalla tunica scarlatta, così volutamente stridente, a onta del suo infantile candore -, si lanciano in un duello fra le ragioni della Ragione e quelle del quia absurdum. La suggestione è forte – anche se il senso sfuma, talvolta. Appunto sui miei rudimentali mezzi di fortuna: “In quest’angolo tagliato del mondo si compie una protesta, che avrei voluto violenta ed è mite – dice Pilade, oramai nel cuore del camposanto – Come si compie? Stando…” ad inaugurare il gioco di trasversale polemica al potere, omaggio ancora una volta, ad una resistenza. E, di lì a poco, infatti: “Soltanto l’idea d’impossessarsi del potere è la peggiore delle colpe. Va’ nella città vecchia che io non conosco. Sia maledetto il tuo dio, oh Ragione: e ogni dio…”. Il progetto di Archivio Zeta, poi, si articolerà in tre tappe – fruibili ancora quella del 25 alle Saline di Volterra e del 26 a Pomarance. Altro incontro clou della prima giornata – e, come lo spettacolo della Compagnia della Fortezza, tenuto entro le mura carcerarie – era stato il simposio spettacolo “Buon compleanno, Giuliano!”, dedicato all’ottuagenario maestro Scabia.
Certo, Volterra significa Punzo. E Aniello Arena, lo storico attore-detenuto, che ha fatto della professione attoriale il senso di quel: “Fine pena: mai” – collezionando anche riconoscimenti e premi lusinghieri, in questi 15 anni. Così la giornata successiva la dedico allo spettacolo in Fortezza, “Shakesperare, know well” e “A-solo”, l’esperimento di drammaturgia condivisa col pubblico, che vede protagonista Arena sotto l’irrinunciabile guida di Punzo. Curioso assistere ad una spettacolo della compagnia e non trovarlo in scena, Aniello – più curioso ancora ritrovare Punzo in quel che pensavo sarebbe stato una sorta di monologo dell’attore napoletano. E invece no: è stata una lezione spettacolo, in cui, ripercorsi alcuni impareggiabili guizzi stralciati dai personaggi interpretati nella sua carriera – da “Marat Sade” a “Santo Genet” – e spiegato il senso di quell’ A(s)solo, il pubblico è stato invitato all’interazione – sia teorica, ponendo domande, che fisica, proponendo partiture attraverso il medium di una quarta parete di vetro. Non erano gli stessi occhi visti nel pomeriggio: lì Arena si confondeva fra il pubblico – chissà, forse pensando a quale ruolo avrebbe potuto essere il suo -; qui era protagonista assoluto di quel Teatro, che si vede subito essere il suo elemento di fatica e studio – oltre che ciò, che lo ha riscattato. “Se è vero che sono condannato, voglio recitare…”, è il passaggio di uno dei suoi a(s)solo – la penna sempre quella di Punzo. E non può non dare un brivido, sapendo che, in chi recita, cortocircuitano non solo l’inevitabile istrionicità sociale della precarietà umana, ma qui, la portata della sua condizione precipua certo aggiunge una connotazione in più. E, in fondo, forse non erano gli stessi neppure gli occhi assenti di Punzo protagonista assoluto, nel pomeriggio, di quello “Shakespeare , know well”, che in fondo lo sa che non c’è possibilità di incontro fra l’autore e i suoi personaggi – per quanto sublimi pagine sappia aver scritto e per quanto vere e toccanti considerazioni sulla comune caducità umana sia riuscito a por loro a fior di labbra. “La solitudine dei numeri primi”, mi vien da pensare. E poi quella ‘sospensione‘, che intitola il Festival di quest’anno. E non è solo quella dei luoghi (il carcere, ad esempio, ma anche i deliziosi, benché isolati piccoli centri, il cui molle, eppure ostinato adagiarsi, sparpagliati fra le colline, torna a parlarmi in qualche modo di ‘resistenza‘).
Essere sospesi è una condizione dello spirito: qualcosa a cui siamo inchiodati – la dice lunga la selva di croci (scomposte: di ogni dimensione, foggia e disposizione), che costituisce la quasi totalità delle scenografie. Essere sospesi dice al tempo stesso resistenza e incomunicabilità: stigma di una condizione umana, che forse qui – più altrove – diventa contitio sine qua non.
Il Festival proseguirà fino al 26 – estratti da”Premio Scenario”, Mariangela Gualtieri, Mario Perrotta, Fanny&Alexander… Ma io sono ripartita. Guidando sui percorsi sinuosi della campagna toscana, mi trovo a riflettere sul ‘silenzio‘: forse quel che occorre, dopo un’ abbuffata di stimoli ed emozioni di tal portata; di certo quel che tributa il suo peso alla parola drammaturgica.
...blogger per voyeristica necessità!
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