fattiditeatro ha avuto una genesi particolare: è nato prima il gruppo facebook e poi questo blog. Poco prima della fine del 2009 il gruppo ha superato quota mille iscritti (nel momento in cui scrivo sono 1149, un numero enorme per un gruppo che non può contare su nessuna struttura organizzativa e istituzionale e che ha risorse monetarie pari a zero). Per celebrare il superamento della soglia di questi primi mille iscritti (quanti altri fattiditeatro ci saranno in giro che ancora non ci conoscono?) ho posto agli amministratori (amici scelti in base alla loro passione per il teatro e alle loro attività sul web e divisi su criteri geografici) la seguente domanda: “Come, quando e perché sei diventato “fatta/o” di teatro? Raccontaci un aneddoto, un ricordo o una citazione, che rievochi la nascita del tuo rapporto con l’arte da noi tanto amata”.
Fatta di teatro, ma più spesso strafatta di teatro.
Fatta di immagini che entrano sotto la pelle e tornano come lame durante il sonno.
Fatta di suoni che non pensavo nemmeno esistessero, che rimbombano dentro la pancia.
Fatta di una torta nuziale con gli sposi che escono da dietro il sipario.
Fatta di code al freddo e corse fino allo stremo pur di esserci.
Fatta di prove, di ematomi, di libri divorati, di ore passate al pc.
Fatta di dolore, di malattia, di una pelle che non si vuol togliere.
Fatta di sguardi, di baci, di lacrime e sangue e sudore.
Fatta di quella sostanza di cui son fatti i sogni, direbbero.
Fatta apposta per essere smantellata e poi ricostruita.
Fatta così. Ma anche non così.
Incomposta. Slabbrata. Rigida eppure inconsistente.
Chiara Cicognani, fdt Emilia-Romagna
A 16 anni ero convintissima di voler fare, da grande, la giornalista. E oltre a ribadirlo con forza sulle pagine del diario di terza superiore, nella “hit parade dei più amati” inserivo in buona posizione il teatro. Probabilmente non sapevo quasi cosa stessi scrivendo, oppure sì; fatto sta che qualcosa, di quelle anticipazioni adolescenziali, si è avverato. Che fosse destino?
Daniela Arcudi, fdt Torino
Un tempo avevo una compagna che era strafatta di teatro. Quando stavo con lei però assistevo relativamente a poche cose. Poi un giorno la vita mi portò via da Roma. Dovetti reinventarmi, cercare un nuovo tessuto di relazione, e, non so perché, ho pensato che la grande famiglia del palcoscenico potesse diventare casa mia. E così è stato. Da piccolo avevo la sindrome. Da grande mi faranno la sindone. Con un sipario.
Renzo Francabandera, fdt Lombardia
C’è una parte di merito di Simone, se sono fattaditeatro. Se amo e ho conosciuto teatri e teatranti che avevo già dentro, prima di sapere della loro esistenza. Se ho imparato a guardare e cercare anche dove non c’era subito la magia del riconoscimento e della fascinazione. Se ho deciso di scriverne. Lunga vita quindi a fattiditeatro, come siamo tutti noi, e al suo magico creatore, comunicatore, burattinaio: Simone.
Carolina Truzzi, fdt Milano
Ho sempre abitato a poche centinaia di metri dal Teatro della Limonaia. Vedevo questi strani figuri entrare ed uscire. Erano diversi, stravaganti. Euforici, colorati. Lavoravano di notte. Era quello soprattutto che mi affascinava. Avevano le occhiaie. Mi sono sempre innamorato di donne con le occhiaie. Vuol dire che ne hanno viste. Ecco se devo ricondurre il mio amore per il teatro parte proprio dalle occhiaie. Dentro le quali perdersi, cadere, borse che contengono storie e parole e silenzi fatti di corpi che diventano altro. Non so cosa. Soltanto altro.
Tommaso Chimenti, fdt Toscana
[…] Il teatro era mia madre. Quando ero piccola aveva inventato per me un curioso personaggio, la bambina Salterellina, che sotto la pelle dei piedi aveva nascoste un paio di molle. Ogni notte per addormentarmi me ne raccontava un’avventura. Mimava i salti della protagonista, deformava la voce, creava l’atmosfera surreale in cui l’inafferrabile Salterellina si librava. Il risultato era che io tardavo a prendere sonno, perché, finita una storia, ne volevo subito un’altra.
Poi fu la televisione, il teatro in bianco e nero del venerdì sera. Amleto con Gasmann, Il giardino dei ciliegi con Valentina Cortese, Sor Todero con Cesco Baseggio, Il berretto a sonagli con Memo Benassi.
Andai al Teatro Verdi di Sassari la prima volta per vedere uno spettacolo destinato alle scuole elementari. Una storia melodrammatica: il figlio unico di una famiglia di bianchi americani e razzisti aveva bisogno di una trasfusione di sangue. A salvarlo con il proprio plasma arrivava un bambino di colore, e tutti alla fine avevamo il dovere di commuoverci. Il parapetto del palco mi premeva sullo stomaco: solo sporgendomi riuscivo a vedere bene il palco.
Al liceo fu la filodrammatica scolastica. All’università la scoperta del teatro d’avanguardia e lo studio dei diversi stili e generi. I viaggi in “Continente”, come noi sardi chiamiamo la penisola, per vedere uno spettacolo che nell’Isola non sarebbe mai arrivato.
Quando le luci di sala si spengono e il sipario illuminato sta per aprirsi provo la stessa piacevole sensazione di quando mia madre iniziava a raccontare una delle sue storie. Poi il sipario si apre e inizia la magia.
Donatella Sechi, fdt Sardegna
La mia fattanza teatrale è cominciata al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli nel 2001, assistendo all’Amleto di Latella; ma quello che ricordo è un momento particolare di questo spettacolo. Si tratta di un monologo che veniva recitato da tutti gli attori in scena: ognuno di oro aveva una carriola che faceva ruotare in aria con forza. Il senso di paura e di rischio di quel momento, la violenza con cui dovevi affidarti agli attori, il fascino ambiguo di quel pericolo ritornano in me ogni volta che mi siedo in sala. Ogni volta cerco quella paura che ha cambiato il mio modo di vivere.
Michele Mele, fdt Napoli
Spesso mi capita di ripensare alla “prima volta”, al primo spettacolo che ricordo, o al primo momento in cui qualcosa dentro di me ha fatto scattare una molla, una fascinazione, come un salto in un pozzo senza fine. Non tanto in ordine di tempo: ma cosa è stata la “prima volta”, cosa era quell’incanto subito del teatro? Fattualmente non riuscirei a limitarmi ad un solo momento, ad una sola frase, ad una sola musica. Probabilmente però, se dovessi riferirmi ad un solo scarto iniziale potrei far riferimento a quando avevo nove anni e mi sono inverosimilmente trovata su un palco d’Opera tra le scenografie di una sfavillante Bohème, là, sul palcoscenico, come corista tra le voci bianche ma come prima spettatrice, sempre col fiato sospeso, in quell’atmosfera voyeuristica stranamente così lontana dal nostro quotidiano “stare seduti in platea”. Era un’altra età certo, ma ricordo ancora quelle sensazioni perché come un filo d’ Arianna ho continuato a ripercorrerle lungo un percorso in divenire che da un po’ d’anni dopo ad oggi continuo a seguire. Beh, già da lì provai una sensazione irrimediabile e misteriosamente intrigante: lo spaesamento. Già, lo stordimento del non conosciuto, la sorpresa di una serie di linguaggi, di cui non conosciamo ma interpretiamo o proviamo a interpretare l’idioma, che ci coglie impreparati, e che travolge con violenza, come una vampata. Sì, insomma cosa è stata la “prima volta”? Lo smarrimento, il non sentirmi a casa e sentirmi però di carta, di vetro, di sale, di carne, e di ossa. Ecco tutto.
Futura Tittaferrante, fdt Bologna
Luglio 2003. Avevo già iniziato a seguire il teatro contemporaneo da qualche anno, soprattutto grazie alla straordinaria stagione del Teatro Metastasio di Prato 2001/2002 messa in piedi da Massimo Paganelli allora direttore dello Stabile. Per la prima volta entro nel Carcere di Volterra per assistere a uno spettacolo. Armando Punzo, il cui lavoro avevo scoperto durante la già citata stagione pratese con uno spiazzante Nihil da Heiner Müller, dirige la Compagnia della Fortezza nello spettacolo I pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht durante l’annuale festival VolterraTeatro. Yuri, il figlio di Armando, mi suggerisce di prendere posto tra le sedie e i tavolini “grosziani” di fronte al palco. Nel cabaret costruito per l’occasione fa un caldo insopportabile, lo spettacolo è intenso, prende lo stomaco. Nel delirio finale prima del girotondo sulle note di Fuori dal tunnel di Caparezza (allora sconosciuto), un detenuto-attore scende verso di me, mi guarda negli occhi e mi invita ad alzarmi prendendomi per mano, primo fra tutti. Sudato fradicio, un po’ a disagio inizio il carosello al quale prenderanno parte altri del pubblico. Piano piano mi sciolgo e inizio a sentire una sensazione di benessere. Con quel gesto il teatro mi ha preso per mano, mi ha rigirato come un guanto, mi ha malmenato, scosso, abbracciato. Non mi sono ancora ripreso.
Simone Pacini
Simone Pacini si occupa come consulente free lance di comunicazione, formazione e organizzazione in ambito culturale. Nel 2008 concepisce il brand “fattiditeatro” che si sviluppa trasversalmente imponendosi come forma di comunicazione 2.0. I suoi laboratori e le sue partnership che mettono in relazione performing arts e nuovi media sono stati realizzati in 18 regioni. Dal 2015 crea progetti e tiene lezioni e workshop di “social media storytelling” per la cultura, in collaborazione con università e imprese culturali. Nel 2018 è uscito il suo primo libro “Il teatro sulla Francigena”.
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