Reduce da una lunga tournée, che per ben tre stagioni lo ha portato in giro per lo Stivale, “Qualcuno volo sul nido del cuculo”, adattamento e regia di Alessandro Gassmann, finalmente approda al Teatro Elfo Puccini di Milano. Ospitato, con tutti gli onori del caso, dal 10 al 15 aprile 2018, ecco che lo si fa accomodare nel salotto buono di Sala Shakespeare.
Quel che Gassmann fa è trasporre il film di Dale Wasserman, dall’omonimo romanzo di Ken Kesey, in un contesto nostrano, dove il reparto psichiatrico diventa quello di Aversa e l’anno scelto per la collocazione temporale è il 1982: intuizione quanto mai felix per caricare di significato mediatico l’incontro sportivo, che la dispotica capo-reparto, con un cavillo, impedisce ai degenti di vedere. “Anatema!”, verrebbe da gridare, specie in quel contesto napoletano, in cui Maradona, ancora oggi, probabilmente è secondo solo a San Gennaro, e specie di fronte alla finale dei Mondiali, evento capace di risvegliare il tifoso che c’è in te perfino nel più tiepido degli italioti.
Ovviamente sono tantissime, le traslazioni e gli adattamenti fatti da Gassmann per ricucire sull’italico suolo una vicenda tanto lontana, per spazio e cultura, ma probabilmente non altrettanto quanto alle dinamiche di potere e prevaricazione, che sono le stesse a tutte le latitudini. Più o meno felici, certe trasposizioni sono cariche d’implicazioni e sottotesti, che chissà quanto siano stati esplicitamente voluti e quanto non siano invece accidentale esito di un intento più giocoso. Eppure non è lo stesso vestire con una severa uniforme di reparto la repressiva capo-sala o ammantarla con un diabolico saio monacale; non è lo stesso usare, come ariete con cui aprirsi la via di fuga, un lavandino divelto – com’è nel film – o, invece, la pesante statua della Madonna, che troneggia e sotto cui si riparano – freudiano succedaneo della madre perduta – i pazienti. Piaccia o non piaccia, non è lo stesso: specie in un Paese dalla forte tradizione cattolica, con cui forse non ha ancora davvero finito di fare i conti, al di là degli esiti laici che oggi improntano la nostra società. Non è lo stesso raccontarlo in un’Italia per tanto tempo figlia e poi orfana di Basaglia e, per altro aspetto, culla del Diritto, della latina demo-cratia, della Lex e dello Ius, questo feroce tentativo di riconvertire pazienti a loro tempo ineducati alla frustrazione del “No” e del limite della regola – questa la tesi dell’odiosa Suor Lucia -, scimmiottando la costruzione di un comitato dei pazienti e di una comunità terapeutica formale, coi suoi protocolli così finemente burocratizzati. Così non fa specie quel: “Democrazia e pazzia sono la stessa cosa”, sarcastica constatazione di Dario, ultimo arrivato ed elemento deflagratore; l’arguto latino, del resto, già nell’antichità ironizzava: “Summum ius, summa iniuria” o “Fatta la legge, trovato l’inganno”, ben incarnando quella stessa vis, che certo non manca neppure a questa versione partenopea di McMurphy (interpretato da Jack Nicholson, nella versione cinematografica). Eppure l’operazione resta poco più che una commedia efficacemente scritta e ottimamente interpretata, resa spettacolare da soluzioni registiche ibride e che manda a casa con la coscienza borghese solleticata quel tanto che basta: siamo passati attraverso ad un inferno (edulcorato, ma, soprattutto, reso inoffensivo, anche fisicamente, da quel tulle, che ci scherma da loro e che serve a proiettarceli sopra, gli spauracchi e i miti dell’italiano medio, dalla madre ingombrante che si nega perfino nei sogni, per disapprovazione, alla corsa liberatoria di Tardelli, alla finale dei Mondiali d’Italia ’82) e siamo sopravvissuti. Perché, come il protagonista, siamo forti e, a differenza dei matti, siamo cuculi e non passerotti, così abbiamo imparato a impossessarci dei nidi degli altri, per sopravvivere, e a padroneggiare la paura? Forse la drammaturgia con contemplava questo genere di precipitato – o forse sì: ma, allora, questo resta più un intento che una dichiarazione di guerra-: eppure è impossibile avvicinarsi a un simile abisso senza che questo, nietzscheanamente, ci scruti dentro.
Fedele al plot del film, la trama racconta dell’arrivo di un nuovo paziente all’interno di una struttura psichiatrica dall’ordine così ben collaudato, che la stessa capo-sala ha ricevuto un esplicito riconoscimento, per questo. “Premio per il reparto con minor numero di addetti”, ci tiene a far sapere, mostrando, orgogliosa, la targa esposta in sala-giorno: “…perché la parola d’ordine, qui, è…”, imbecca… “Col-la-bo-ra-zio-ne!”, terminano, in coro, i degenti ben ammaestrati; e ci vuol poco a intuire che il nuovo arrivato è venuto a sparigliare le carte. Eppure l’azione resta spesso sospesa in una modalità, che ha più della commedia – con quella sua scrittura graffiante e godibile, complici anche interpreti dalla bravura collaudata e contagiosa – e poco del pathos che ci s’immagina in una simile struttura contenitivo-rieducativa come la scenografia austera e spoglia ben restituisce, nonostante l’intenzionale gioco a stemperare, colorando gli arredi di bianco e di celeste – le stesse tinte di abito e mantello della Madonna – e ad inondarlo di fulgide luci mattutine. Si parla sì di paura e di violenza – i momenti salienti sono sottolineati da luci che improvvisamente si concentrano in lividi occhi di bue ad irradiare gli sventurati protagonisti –, ma poi di fatto le si assaggia appena, nei brevi passaggi obbligati, a cui la drammaturgia è costretta a cedere e che la regia spesso sublima nella trasposizione filmica o d’altra natura. È questo il caso dell’aggressione finale, che costerà a Dario la “pena capitale” della lobotomia a condanna per il suo “peccato mortale” di aver osato manomettere il farneticante ingranaggio della delirante Suor Lucia o delle ombre a suggerire il suicidio di Fulvietto; solo la “liberazione” che alla fine Ramon avrà il coraggio di regalare a Dario, e che lo trasformerà finalmente in quel gigante che non crede di poter essere, ci viene mostrata senza veli: gli fanno filtro i discorsi degli amici degenti, che sembrano parlare di altro e, questo, è il sudario di umanissima pietas, che ci regala la regia.
Quasi fosse un sogno o forse un incubo come i suggestivi assoli notturni della coscienza di Ramon: procede così, questo racconto intimamente disturbante – si parla di prevaricazione, manipolazione, del rapporto con la madre, col sé e col sesso; si parla d’ira e dell’incapacità di gestirla e di quella di gestire la paura, le proprie inclinazioni e l’inestinguibile bisogno di essere accettati, nonostante tutto, al di là di quel che si è-, ma al tempo stesso reso in modo che non possa poi disturbare davvero. Quel che prevale è quella leggerezza quasi naïve con cui spesso ci piace colorare la diversità per rendercela più maneggiabile. Quel che ci si porta a casa è il prezioso lavoro attorale dell’intero cast (Daniele Russo, Elisabetta Valgoie, Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Emanuele Maria Basso, Alfredo Angelici, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Gaia Benassi, Davide Dolores, Antimo Casertano, Gabriele Granito capaci di restituire con una precisione leggera, ma tangibile i tic e i disagi delle differenti patologie) ed un gradimento di pubblico, da sala gremita e applausi a scena aperta.
TEATRO ELFO PUCCINI | 10 – 15 APRILE 2018
QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO
di Dale Wasserman dall’omonimo romanzo di Ken Kesey
adattamento Maurizio de Giovanni
e con Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Emanuele Maria Basso, Alfredo Angelici, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Gaia Benassi, Davide Dolores, Antimo Casertano, Gabriele Granito
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