Per noi di una certa generazione, Geppetto non può avere che gli occhi scuri di Nino Manfredi, la sua schiena un po’ incurvata e il suo passo strascinato e traballante.
Ne “Le avventure di Pinocchio” di Comencini è proprio quel suo sguardo ora struggente e commosso, ora incuriosito, adirato, stranito o ciarliero, a raccontarci della complessa relazione padre-figlio: un padre, che si ritrova ad esserlo contro ogni ragionevole aspettativa e un figlio, che si rivela tale in barba a qualsiasi legge di natura. Così non sorprende che, volendosi soffermare sulla spinosa questione della “stepchild adoption”, ovvero la possibilità di adottare il figlio biologico del proprio partner, tutelandolo con la custodia legale in caso di prematura morte del genitore naturale, Tindaro Granata si affidi proprio alla suggestione dell’illustre falegname collodiano.
Già, ma Pinocchio è un burattino; nella vita reale per fare un figlio non bastano un demiurgo e una buona materia prima. Occorrono due genitori. Ed ecco che, quasi bimbo impertinente, il drammaturgo Granata moltiplica per due ‘sta diavoleria, elevandola al quadrato. Il risultato? Un “Pinocchio” (Matteo, impersonato da Angelo Di Genio) sia “hùios” (Figlio naturale come solo Gesù lo fu, insegna la teologia) che “tèchnos” (figlio naturalizzato come ciascuna di noi, creature fatte a Sua Immagine); al suo fianco un “papo” (Paolo Li Volsi nei panni del padre naturale Toni) e un “papi” (Tindaro Granata alias il compagno Luca), ovvero “Geppetto e Geppetto”. Tutt’attorno madri, nonne, zie, sorelle, amiche e maestre: una pletora di donne a far da cornice, quasi a scongiurare quell’anomalia di una doppia coppia di cromosomi “xy”.
Ma procediamo con ordine. In un ambiente che sembra dire: “Silenzio, provini in corso”, il tavolo di quella che in fondo potrebbe anche essere un’audizione. Gli “esaminandi” sono una coppia di uomini convocati per sondarne le reali intenzioni a intraprendere il costoso iter che li porterà ad avere un figlio attraverso madre surrogata. “Como fu, como non fu…” avrebbe intercalato nel suo “cunto” la vecchia antenata, che lo stesso Granata ha portato in scena nella sua opera prima “Antropolaroid”, alla fine i due decidono di procedere. Incuranti delle opinioni della madre di Toni, piuttosto che dell’amica Franca – irremovibile, l’una, bonariamente accomodante, altra -, danno vita alla loro famiglia fuori dagli schemi, ma fondata su quello che reputano il perno reale: l’amore. Così procedono nel loro quadretto di famiglia alla Mulino Bianco, mutatis mutandis, ad onta delle voci – tema caro al Granata, del resto, quello dei “rumors”, come il suo “Invidiatemi” già testimoniava.
Ecco perché risulta azzeccata, la scelta di restituirle non solo attraverso il confronto tra i diversi personaggi o gli exploit del piccolo Matteo, che subisce/riporta lo sguardo non sempre accogliente dei compagni e della maestra, nonostante il suo sforzarsi ad essere politically correct, ma, non a caso buio in scena, quasi a voler sospendere il racconto fatato, anche attraverso le registrazioni rubate al Family Day dello scorso gennaio. E’ della vita reale, in definitiva, che si sta parlando.
E se personaggi a tratti son ben delineati anche nel non detto di silenzi o reticenze – emblematici i dialoghi fra Toni e la madre (Roberta Rosignoli) -, talaltra sfumano in apparenti cortocircuiti logici che, lungi dal significare passi falsi drammaturgici, sono, più spesso scintille creative del bonario “Lucignolo” Granata e della sua voglia di divertirsi. Mischia realtà e poesia e quel che ne vien fuori è un sapiente alleggerimento di una tematica tanto controversa; l’accende con la luce lieve della fantasia, specie finché si narra dell’infanzia di Matteo, ma sa anche affondare in passaggi dall’emozione palpabile e coinvolgente. Sono bravi, gli attori, nel modulare tutto questo: millimetrico Angelo Di Genio nel dosare la freschezza dell’infanzia con una consapevolezza adulta oscuramente sentita, che mixa nei monologhi del bambino, la cui voce cristallina a spensierata si accende, a tratti, di una solennità che è già il presentimento dell’adulto. Anche Paolo Li Volsi, come tutti, convince: attoralità prosaica, ma realistica, a corrente alternata fra la poesia surreale del papo “buono” e le durezze del figlio che non si sente accolto fino in fondo dalla madre. Risultano in parte anche le ragazze: Roberta Rosignoli a interpretare la madre di Toni con quella verità della vita di tutti i giorno, che fece scrivere a Elsa Morante: “Qual è secondo voi la frase d’amore più vera? […] La frase d’amore, l’unica, è: ‘Hai mangiato?’” e Lucia Rea nel doppio ruolo della maestra e della figlia di Franca (un’Alessia Bellotto dalle riflessioni sulla vita tanto prosaicamente amare quanto denudanti), dialettica nei confronti di Walter/Carlo Guasconi. In scena anche Tindaro Granata, pure autore e regista, la cui generosità nel non voler primeggiare sui colleghi, lo porta, specie all’inizio, a indugiare in una tipizzazione farfugliante del suo personaggio, che lì non fa gioco però all’economia della pièce.
Tutti attorno a questo tavolo – “A volte è agenzia”, “A volte è cucina”, “Avvolte è scuola”, scritto, quest’ultimo, con ostentato corsivo da classe elementare, su spenzolanti cartelli di brechtiana memoria – non solo si alternano i personaggi protagonisti della scena, ma, frattanto, prossimi alle quinte, siedono i personaggi/attori al momento non coinvolti dall’azione. Sono vestiti in un anonimo nero, acceso solo dal bianco dei nomi scritti a caratteri cubitali sulla maglietta. Stanno lì, immobili nel tempo dell’inazione scenica, come se davvero si trattasse di una prova aperta. La loro presenza sul palco è, sì, il modo più agevole per poter rientrare in gioco nel minor tempo possibile; al tempo stesso questo loro guardare li rende uguali al pubblico: correi in quella funzione di giuria, ma anche coprotagonisti di un’azione che non è solo fruita, ma, in qualche modo, pure agita.
Questa funzione di coro che si trasforma poi anche in pubblico (ministero), diventa più evidente nella seconda parte. E’ solo ora che è divenuto adulto, che Matteo ha la forza e la reale consapevolezza per esprimersi, argomentare o ringhiare, come spesso fanno i giovani, e finalmente verbalizzare e problematizzare quel mondo a “La mia vita in rosa” (film belga del 1997, che, con toni poetici e surreali, tratta della presa di coscienza dell’omosessualità da parte di un ragazzino), che poi tanto “in rosa” sempre non è. Alla fine quel che resta è che sono le dinamiche familiare tout court a non funzionare. “Come fai, sbagli” è il mantra di Franca, specie quando si confronta con Luca in merito al comunque fallimentare esito dei rispettivi ruoli genitoriali. Quel che resta è che “se ci sarebbe più amore”, tormentone volutamente sgrammaticato a esprimere un’intuizione tanto autentica quanto basica, le cose andrebbero meglio, ci dicono; eppure non è certo l’amore quel che pare manca a quegli spaccati di ménage familiari. Cosa, allora? Granata non pare avere risposte, ma solo un viaggio, fra dramma e poesia, a offrir a ciascuno la spazio per trovare la propria.
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