Giuseppe Stellato alla Biennale Teatro 2018. Intervista

Ad agosto sono stato per la prima volta alla Biennale Teatro, per il secondo anno diretta da Antonio Latella, dopo l’edizione 2017 incentrata sulla figura del regista, indirizza la sua direzione artistica verso quella dell’attore/performer.

Ho potuto assistere, nel foyer delle Tese l’enorme spazio teatrale dove si è concentrata tutta la programmazione del festival, a Mind The Gap la seconda tappa della trilogia “in divenire” di Giuseppe Stellato prodotta da stabilemobile. Quest’inverno a Salerno avevo già avuto la possibilità di assistere al primo capitolo Oblò presentato a Out of Bounds 2018 la rassegna ideata e diretta da Licia Amarante e Antonella Valitutti di L.A.A.V. Officina Teatrale.

I due lavori, dalla durata di circa trenta minuti e senza attori in scena, hanno un formato e un’estetica simili, sono stati presentati in coppia alla Biennale e replicheranno il 20 settembre al festival Città delle 100 Scale di Potenza.

Per tratteggiare il lavoro di Giuseppe e dei suoi collaboratori, gli rivolgo qualche domanda:

Macchine

Simone Pacini: Sia in Oblò che in Mind The Gap la protagonista della scena è una macchina. Che azionandosi si comporta sempre in modo diverso, più di certi attori che ripetono sempre la stessa parte. Cosa ti affascina maggiormente del rapporto uomo/macchina?

Giuseppe Stellato: Ho sempre subito un fascino particolare per le macchine, sia per una questione estetica, che funzionale. Le vedo un po’ come un’estensione del corpo umano, compiono azioni al posto nostro, rispondono ai nostri comandi, eseguono compiti per i quali le programmiamo. Però poi mi piace immaginare che abbiano anche una vita interiore propria, come se dopo un po’ imparassero a conoscerci e cominciassero a dirci la loro. Il loro mondo segreto, per dirla alla Peter Gabriel, che spesso non è altro che uno specchio del nostro.
Da questo punto di partenza m’interessa scoprire poi quello che veramente ogni macchina ha da raccontare: meccanismi interiori, suoni, rumori, movimenti, che molto spesso sono diversi ogni volta che vengono azionate. Tutto ciò ovviamente partendo dalla funzione originale che ha la singola macchina. E l’uomo, il performer in questo caso, diventa colui che interagisce con essa, la mette in funzione, la usa e poi ascolta e osserva quello che lei ha da dire, relazionandosi ad essa in un modo che mi piace definire “essenziale”. C’è poi un elemento molto importante, legato alla casualità, e cioè al fatto che non puoi mai prevedere completamente una macchina come si comporterà, e questo forse è il vero aspetto performativo di questi lavori.

Dal catalogo della Biennale Teatro 2018

Luogo ideale

Simone Pacini: Personalmente penso che uno dei problemi del teatro siano i teatri stessi, spesso luoghi chiusi e verso i quali esistono moltissimi preconcetti. Ciò che mi ha colpito delle tue installazioni-performance è che, per come sono immaginate, potrebbero essere realizzate ovunque: in un museo, ma anche alla fermata della metropolitana o in un centro commerciale. Hai mai pensato ad un luogo ideale per i tuoi lavori?

Giuseppe Stellato: Provengo dal mondo dell’arte contemporanea, dove realizzavo installazioni ambientali, spesso site-specific. Sono arrivato al teatro dopo la mia esperienza di scenografo, e ho capito che questo è il luogo che mi interessa maggiormente, perché mi permette di chiedere allo spettatore un’attenzione in più, soprattutto nell’evoluzione del racconto o della drammaturgia, anche se parliamo di una drammaturgia fatta di immagini e suoni. Teatro inteso quindi come uno spazio dove c’è un oggetto e una persona che stanno raccontando qualcosa che ha un inizio e una fine. Che poi si tratti di un teatro, una fabbrica o una chiesa poco importa, anzi mi piace adattare il lavoro ogni volta a un ambiente diverso, sfruttandone quando è possibile le potenzialità. In questo è importantissimo il lavoro del light designer Simone De Angelis, che ogni volta con le luci ridisegna la scena nello spazio valorizzandone le caratteristiche.

Giuseppe Stellato Oblò
Oblò – Courtesy La Biennale di Venezia / © Andrea Avezzu’

Primo spettatore

Simone Pacini: In scena il pittore e scenografo Domenico Riso in entrambi gli spettacoli compie un gesto semplice, quello di disegnare una linea. Tu l’hai definito “primo spettatore”. Potresti spiegarmi meglio questa definizione?

Giuseppe Stellato: Domenico oltre a relazionarsi con la macchina mettendola in funzione, ci accompagna nella scoperta di quello che essa ha da raccontarci, mettendosi a volte fisicamente “dalla parte del pubblico”. Le azioni che compie sono spesso simboliche e tecniche allo stesso tempo, come appunto disegnare una line rossa in Oblò e una gialla in Mind The Gap, che rappresentano un po’ il senso di confine sul quale ci interroghiamo con questi due lavori. M’interessa molto anche il senso artigianale e tecnico del gesto, il rapporto con lo strumento, sia esso un pennello o un rullo da imbianchino. Per questo motivo ho scelto un pittore-scenografo e non un attore-performer. Uno che sa compiere un’azione in maniera semplice e pulita, come chi lo fa tutti i giorni, ma allo stesso tempo sappia stare in scena con sicurezza senza bisogno di interpretare nulla.

Dal catalogo della Biennale Teatro 2018

Live

Simone Pacini: Nei nostri incontri hai sempre sottolineato l’importanza della collaborazione con il musicista e sound designer Franco Visioli, che crea l’ambiente musicale dal vivo interagendo col suono della macchina. In pratica, cosa accade sulla scena e in regia?

Giuseppe Stellato: Il lavoro di Franco è fondamentale. Assieme alla macchina in scena, è lui il vero performer, inteso come colui che ogni volta compie un’azione “dal vivo”. Sia la lavatrice di Oblò che il distributore di Mind The Gap hanno posizionati all’interno dei sensori microfonici che catturano i suoni più profondi di ogni macchina che, quando sono azionate, producono un suono sempre diverso.
Il lavoro di Franco consiste appunto nell’elaborare ogni volta questo suono in una vera e propria improvvisazione, in equilibrio tra estraniamento e riconoscibilità del rumore originario. Tutto ciò interagendo con la partitura “narrativa” che ha una struttura più o meno fissa, ma che cambia anch’essa ogni volta in base all’interazione. Quindi in scena vediamo una macchina in funzione che non sappiamo ogni volta come “suonerà”, mentre in regia avvengono delle vere e proprie elaborazioni “live” di un segnale sonoro che cambia in continuazione. Tutto ciò conferisce ai due lavori il vero aspetto performativo, legato anche alla casualità della macchina. Sappiamo da dove partiamo e dove arriveremo, ma non sappiamo in che modo e cosa succederà durante.

Giuseppe Stellato Mind The Gap
Mind The Gap – Courtesy La Biennale di Venezia / © Andrea Avezzu’

Viaggi

Simone Pacini: Mentre in Oblò c’è una riflessione precisa che lega la tecnologia e un doloroso fatto di cronaca legato alle migrazioni, mi è sembrato che Mind The Gap porti lo spettatore a compiere un viaggio più libero, a prendere strade diverse. È un’intuizione corretta? Quali sono le altre differenze sostanziali tra i due lavori?

Giuseppe Stellato: È un’intuizione corretta, ma fino ad un certo punto, anche perché i due lavori sono nati in modi un po’ diversi. Oblò è nato dal tentativo di mettere assieme tre immagini: quella del bambino siriano trovato morto sulla spiaggia, la lavatrice, e la linea rossa. In questo modo abbiamo scoperto una modalità di lavoro, il costruire una drammaturgia per immagini e suoni che abbiamo poi voluto approfondire in Mind The Gap, questa volta partendo dalla macchina, un distributore di snack.
Lavorando ci siamo resi conto però che il tema delle migrazioni continuava a interessarci, forse nel suo senso più ampio, quello del viaggio, inteso come tentativo di migliorare la propria esistenza. Anche perché siamo partiti da una macchina che si trova spesso nel luogo di passaggio per eccellenza, la stazione, in prossimità di quella linea gialla che è vietato oltrepassare, che di solito è il primo confine che si supera quando s’intraprende un viaggio.
In tutto questo è stato fondamentale l’apporto di Linda Dalisi per la ricerca di tutto il materiale drammaturgico. Assieme abbiamo raccolto delle storie raccontateci da diversi migranti che sono arrivati in Italia e che da anni collaborano con lei in un progetto teatrale. Storie diverse di chi è arrivato scappando dalla guerra nascosto in un camion, e di chi ha semplicemente lasciato il proprio paese per cambiare vita. Tutte queste storie le abbiamo filtrate fino ad utilizzare dei frammenti sonori di una di esse. Quindi in Mind The Gap c’è sicuramente una maggiore libertà lasciata all’immaginazione dello spettatore, ma ad un certo punto diventa chiaro di cosa stiamo parlando.

Dal catalogo della Biennale Teatro 2018
Simone Pacini

Articoli correlati

Condividi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Fatti di teatro - il podcast (ultimo episodio)

Vuoi ricevere "fattidinews" la newsletter mensile di fattiditeatro?

Lascia il tuo indirizzo email:

novembre, 2024

X