Di tanto in tanto qualcuno ci casca. Di tanto in tanto, cioè, qualche drammaturgo cede alla tentazione di scrivere, in presa diretta, del proprio mestiere. Dai “Sei personaggi…” di Pirandello a “Tra cinque minuti in scena” della Coletti, se vogliamo citare una pellicola contemporanea ambientata nella banlieu meneghina. E quel che ne sortisce è lo spalancarsi, agli occhi del pubblico, dell’incanto dello svelamento della scatola magica teatrale. Le prove, le paure, le fobie, gli isterismi, gli spaccati di vita, i cliché e tutto il profondo divario fra quel meccanismo perfetto, quando lo è, che è uno spettacolo teatrale finito e l’incommensurabile lavoro, che ne sta alle spalle. Divario, pure, fra quel che il pubblico crede d’indovinare di vite che immagina perfette o comunque lontanissime dagli stereotipi della routine quotidiana, e la miseria, spesso, che un certo paradigma attribuisce agli uomini d’arte. “Bello e dannato”, si dice e citare il Bukowski pro tempore è solo una scorciatoia.
Ecco, l’atmosfera è un po’ questa ne “Il vizio dell’arte” di Alan Bennett, che la Compagnia dell’Elfo torna a proporre al Teatro Elfo Puccini di Milano per la seconda stagione. Dopo il successo di pubblico, che gli ha valso il Premio Hystrio Twister 2015 – sezione del Premio Hystrio assegnato appunto dagli spettatori -, ancora una decine di repliche, dal 19 al 31 gennaio, per dar modo ad altri di apprezzarlo. La trama è immediatamente empatica per chi fa teatro: un gruppo di attori, colorito e anche un po’ sgangherato, e un’unica sezione di prove. Una “filata”, nelle intenzioni almeno, ma poi le unità aristoteliche si scompaginano in un flash back dichiarato per scoprire che quel personaggio apparentemente “di servizio” che è il dottorando – cosa di cui si lamenta lungamente l’attore chiamato a interpretarlo – , in realtà è l’io narrante dell’intera vicenda. E’ lui, infatti, il testimone dell’incontro fra l’ormai anziano poeta Wystan Hugh Auden e l’a lui coetaneo musicista Benjamin Britten. Un falso storico, certo – i due collaborarono per poco soltanto, a cavallo degli anni “40 -, ma volutamente perpetrato dal drammaturgo anglosassone per parlare della struggente poesia, ma anche della prosaica e sferzante umana miseria di vite al tramonto, splendidamente restituite in scena dagli Elfi. Dunque quattro, i personaggi di questo “teatro nel teatro”: oltre al poeta Wystan Hugh Auden/Ferdinando Bruni – fautore anche della traduzione e della regia, insieme a Francesco Frongia -, oltre al musicista Benjamin Britten/Elio De Capitani e all’io narrante Carpenter/Umberto Petranca, la “marchetta”/Alessandro Bruni Ocaña, testimone anch’egli, ma a suo modo, giacché alla puntigliosa pertinacia dell’aspirante accademico oppone la fresca pragmaticità dello studente. In scena gli attori – meglio: gli attori che recitano altri attori – sono molti di più. Oltre a quelli di cui sopra, la vice-regista, interpretata da una Ida Marinelli splendidamente misurata e ambivalente, sbrigativa nei modi, eppure con risacche di quell’accudimento, di cui gli artisti, pare, tanto abbisognano. Il regista ha dovuto assentarsi per partecipare a un singolare convegno “sull’importanza storica del decentramento teatrale” e di fatto è lei, a dover tenere le redini della compagnia.
Sul palco della sala grande – sventrato e denudato delle quinte fino a mostrare una vacuità che fa quasi sgomento –, ecco anche Matteo de Mojana – attore, ma anche autore delle musiche, che esegue dal vivo – e Vincenzo Zampa, nel ruolo dell’aiuto regista, suggeritore e interprete, con la Marinelli, dei due gustosi e surreali inserti canori atti a restituire la poetica di Auden, come spiega l’autore. Già, perché fra i personaggi c’è anche l’autore della pièce/ Michele Radice in eterna dialettica, qui per interposta persona, col regista.
Tanti, i livelli di realtà – o di finzione -, così che l’idea interpretativa è di spingere quest’ambivalente finzione fino alle estreme conseguenze, mescolandoli e farceli incontrare nella zona di confine fra la ribalta e boccascena. Non c’è più un “noi” e un “loro” e non c’è più nemmeno la frontalità dell’attore davanti alla platea: quel che resta è una realtà liquida, in cui sembra quasi un accidens l’essere – o non essere – attore, personaggio o pubblico.
E mentre si consuma il dramma – “L’ultimo giorno di Calibano”, che i personaggi attori stanno provando -, quel che realmente avvampa è quel “The Habit of Art”, che in fondo redime le brutture, le miserie, la volgarità e i vizi di vite umane – ahi, troppo umane -, che alla fine potrebbero benissimo essere le nostre. “Parlatemi dei difetti degli uomini issati sulle loro spalle”: questa la prima battuta di Auden, che immediatamente ci porta dentro a un mondo fatto di fragilità e sarcasmo, ma anche di compassione, in cui se non si ha paura di chiamare le cose per nome – i vizi sono vizi e non si fanno sconti al politicaly correct -, poi però non manca anche l’umana pietas. Questo, in fondo, il senso di quell’incontro mai avvenuto eppure raccontato, quasi a dire che un altro modo c’è. Bruni, De Capitani, la Marinelli, ma anche “gli Elfi junior” riescono a interpretare tutto questo con leggerezza, sostenuti da un solidissimo mestiere – la prossemica delle mani di Britten, ad esempio, sprofondato nella consunta poltrona verde mentre si confida all’amico di un tempo: una pratica che, da sola, segna la temperatura dello spettacolo… E non può non intrattenere, ma anche ipnotizzare e appassionare questo pubblico, che quasi scorda il gioco delle parti dell’artificio teatrale.
Per tutti quelli che amano il vizio del teatro e per chi, voyeur del piccolo schermo, voglia capire da quali suggestioni forse arrivino certi format televisivi. Ma anche dove non arriveranno mai, probabilmente, perché una fantasia disciplinata a mo’ di mimesi della realtà spesso risulta più vera dell’emorragia di un banale che si fa litania noiosa e sconsolante.
IL VIZIO DELL’ARTE
...blogger per voyeristica necessità!
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