Ci sono tanti modi d’intendere il teatro – d’intrattenimento, borghese, engagé, classico, sperimentale, d’avanguardia o performance… Sì, ma poi c’è un afflato comune, che soffia trasversale nel rituale laico con cui ci si approccia all’evento drammaturgico: la speranza di vedere qualcosa di nuovo, sconvolgente, importante, emozionante. Perché il Teatro, in fondo, è e resta quella Grande Magia, che un po’ ci fa tornar bambini – e un po’ ci permette di fissare, con lo sguardo penetrante dell’adulto, attraverso una finzione capace di spalancare squarci di verità anche in filigrana al più surreale dei racconti. Ora, se questo è il teatro, “La Tempesta di Shakespeare” di Bruni/Frongia ne è una preziosa pagina.
Non si tratta di un’operazione nuova – il progetto data 2004 -, ma di certo è un’operazione singolare. Non interessa tanto la trasposizione dell’intreccio nel 3D teatrale, quanto rendere concrete e tangibili delle chiavi di lettura ben precise – e si sceglie di farlo, paradossalmente, proprio attraverso un’opera che agita sogni, fantasmi e diavolerie, che montano fino a sfumare nel celeberrimo: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e nello spazio e nel tempo di un sogno è racchiusa la nostra breve vita”, con cui il Bardo fa del protagonista il proprio coro, affidandogli tutto lo struggimento e le poesia per l’evanescenza di un’arte tanto viscerale quanto volatile com’è, appunto, il teatro.
Così, quasi a scapito della trama – potendoselo permettere, trattandosi di Shakespeare -, l’intento sembra essere quello di dare corpo ad altro. La Fantasia, soprattutto. Prospero, duca di Milano, abbandonato da oltre 12 anni su un’isola deserta dal fratello usurpatore, è il Gran Burattinaio. Non soltanto perché, traducendo in azione scenica questa metafora drammaturgica, Prospero/Bruni si trova a interagire con tutti e soli fantocci – minuziose sculture sceniche di Giovanni De Francesco, dalla fattura attenta ai dettagli e alla simbologia -, ma perché, fuor di metafora, tali sono considerati coloro che abitano la corte del Duca di Milano – quell’Antonio fedifrago in combutta col re di Napoli Alonso, sua moglie, Gonzalo, l’onesto anziano consigliere; marionette anche Miranda, la giovane e inesperta bellissima figlia di Prospero e per la quale il padre ambisce il ripristino del suo posto legittimo a corte, e Ferdinando, principe di Napoli, con cui la giovane convolerà a giuste nozze. Lo stesso dicesi pure di Calibano, il solo abitante umano dell’isola, nel testo shakespereano, sebbene figlio di una strega, la cui bruttezza fisica, ma anche morale, lo spinse ad attentare alle virtù della bella e giovane inesperta ragazza. Solo Ariel – lo spirito della tempesta – è reso attraverso un burattino – testa di legno e corpo risolto in un drappo bianco, che ben ne restituisce l’evanescenza -: una sorta di genio della lampada – meglio: della quercia, dato che da lì lo ha tratto in salvo Prospero, all’arrivo sull’isola – e legato da un vincolo di riconoscente obbedienza al suo padrone.
Tutta la messa in scena è una sorta d’inno alla ‘fantasia al potere’. Bruni è potente e terribile nell’agitare le sembianze di Prospero/Demiurgo: tutto muove, tutto plasma, tutto preordina – lui è tutti: la sua voce, in una ridda di modulazioni, dà vita a ciascuno e per ognuno inventa un registro, un’inflessione, un vezzo, che talvolta amplifica, facendolo risuonare in gesti a specchio. Non a caso è lui, il solo personaggio umano. Lui è il regista – ideale personificazione di ‘colui che dispone’ – della vicenda; ma lui è anche l’autore – non a caso quel suo lungo pastrano scuro con tanto di gorgiera nera a suggerirci l’immaginario di uno Shakespeare o del suo amato e non meno manipolatorio Amleto. Lui, ancora, quasi stregone – e quelle quinte eteree e svolazzanti, all’inizio, con appena percettibili leonardeschi scarabocchi in sanguigna, suggeriscono un altro mito: che nel personaggio di Prospero fosse adombrato il genio davinciano per molti anni attivo nel ducato milanese. E non si risparmia, Bruni, in questa scatola magica, che la pittoresca fantasia di Frongia immagina come l’ideale spiaggia di un naufragio. La scandisce su tre livelli. Una sorta di tavolaccia in legno, in primo piano, è il palcoscenico su cui si agitano le vicende degli isolani – l’approccio amoroso di Ferdinando e Miranda, spronati alla morigeratezza, e il teatrino comico di Stefano, Trìnculo e il Capitano, non a caso vertente, per converso, sugli eccessi dell’ubriachezza. Più in profondità due chiuse che si abbassano a comporre l’ideale tavolo da gioco su cui si consumano le vicende dei mortiferi protagonisti del complotto di cui fu vittima Prospero. E’ da dietro un sudario velato che ci vengono svelate quelle figure lugubri: sono scheletri, vestiti a lutto e con catene ai fianchi – Antonio, forse a simboleggiarne la colpa del ‘dannato’ – di contro alle figure dai vestiti immacolati e dal pallore di porcellana dei due giovani o ai colori sgargianti, da baruffe chiozzotte, dei tre all’osteria. Sullo sfondo la nave: di fatto la poppa mostra, di taglio, il carrozzone dei teatri di giro del tempo. Già, perché Prospero/Bruni è anche il Capocomico. Due i servi di scena: Filippo Renda e Simone Coppo bravi garzoni di bottega, che sanno servire il maestro nel modo più sollecito e discreto possibile – ora portando o muovendogli le marionette, ora sedendosi ad osservare la potente mimesi e i virtuosi vocalizzi di Bruni, che l’hanno per questo fatto acclamare come il “Nuovo Carmelo Bene”. Lo insegnano bene, i più attenti dei pedagoghi teatrali: “E’ il servo, che fa il padrone” – come a dire che l’intervento attento, preciso, generoso e misurato dei due giovani attori e la loro giusta prossemica certo han contribuito a far brillare la luce di quel sole nella tempesta, che è Ferdinando Bruni.
Certo, in questo lavoro tutto è azzeccato. Anzitutto le luci, pulite e dalle nuances fra il neutro e l’aranciato, improvvisamente si accendono in freddi tagli chirurgici quasi a stigmatizzare gli elementi salienti: il delirio di questo Mago Merlino versione noir nell’invocare gli elementi – Ariel, il sibilante, con chiara allusione all’aria, ma poi anche Calibano, che viene invece detto ‘terra’ – e quel suo grimorio, libro degli incantesimi, al quale il protagonista finirà per rinunciare – rinunciando, con ciò stesso, alla sua funzione di Demiurgo, lui e, trasversalmente, Shakespeare, all’incantesimo della parola, considerandosi, questo, probabilmente il suo ultimo scritto. Ma anche la musica e la rumoristica risultano precise e puntuali – e se anche all’inizio deformano le parole di Prospero, soverchiato dalla tempesta, acuiscono quel senso di ineffabilità e straniamento evanescente, propri di quel mondo di spettri -; non di meno l’intera scenografia – minuziosa, precisa, essenziale, laboratoriale – a restituire un lavoro che, come altri visti di Frongia, è passione, artigianalità e mestiere.
TEATRO ELFO PUCCINI
sala Shakespeare | 6 – 24 maggio 2015
mar-sab: 21:00 / dom: 16:30
per attore, fantocci, figure animate e musica
musica, suoni e rumori Mauro Ermanno Giovanardi, Fabio Barovero, Gionata Bettini
servi dell’isola Filippo Renda e Simone Coppo
fonico Giuseppe Marzoli
assistenti scene e costumi Andrea Serafino, Elisabetta Pajoro
...blogger per voyeristica necessità!
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