Le migrazioni sotto l’acuto riflettore di Agrupación Señor Serrano

Nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu”, retaggio tomistico di aristotelica memoria, insegna che, tutto ciò che abbiamo in testa, prima lo abbiamo sperimentato coi sensi. Ecco perché, accanto alla valenza ludica e d’intrattenimento, il teatro esercita anche una formidabile azione di divulgazione ed è prezioso momento di presa di coscienza, riflessione ed elaborazione di tematiche d’interesse sociale. Non nasceva del resto così, il teatro: come momento comunitario di incontro, confronto e condivisione? Ed è ancora così che si muove, ad esempio, quel teatro sociale, che mette a interagire fra loro gruppi con tensioni più o meno latenti.

Se non è propriamente questo il caso di tanta parte di quel teatro che, oggi, inizia a interrogarsi sulla questione “migranti”, resta comunque vero che, oggi più che mai, il teatro può essere acuminato strumento per indagarne dinamiche, scardinarne pregiudizi e, nella gran parte dei casi, cercarne una restituzione in grado di mostrare un punto di vista più oggettivo e meno viziato dalle nostre paure. Lo aveva ben compreso Hitchcock, fin dal 1963, con analoga valenza anche a quel medium fratello che è il cinema; a proposito della scena dell’attacco alla scuola da parte degli uccelli dell’omonimo film, spiegava che l’effetto terrorizzante sarebbe stato identico anche senza i volatili: quegli uccelli, infatti, sono solo gli spettri delle nostre paure.

Lo mostra bene “Birdie” del gruppo catalano Agrupación Señor Serrano, in scena al Teatro della Triennale di Milano dal 25 al 28 gennaio 2018, portando alle estreme conseguenze quel pensiero. Scandito in quattro atti dai titoli allusivi quali “Stanno arrivando!”, “Sono uccelli, vero?” o “Finiranno mai la loro migrazione?”, sceglie lo strumento apparentemente oggettivo e freddo della telecamera, sortendo invece un risultato capace di amplificare l’immagine fino a mostrare che è nel dettaglio che si nasconde un’altra storia – forse anche un’altra verità.

La tonalità emotiva non si amplifica; eppure è in questo zoom che la coscienza sembra acquisire un sguardo aumentato ed una consapevolezza più lucida. Una modalità, a cui ci ha ben abituati il teatro performativo contemporaneo; da Milo Rau ai nostrani Cuocolo-Bosetti, dai Rimini Protokoll ai Gob Squad, solo per citare alcuni degli ospiti nel cartellone condiviso da Triennale Teatro, Zona K e Teatro La Cucina/Olinda. In questo “Birdie”, poi, il modo è quello della sovrapposizioni di più livelli. Birdie, infatti, lo spiega lo stesso spettacolo, in inglese significa sia uccellino che andare in buca nel gioco del golf. Così, costruite su una pluralità di piani semantici, con scelta sapiente le immagini alternano spezzoni dell’hitchcockiano “Uccelli”, filmati d’epoca e la presa diretta dai plastici montati sul palco. L’esito è un cortocircuito tutto cerebrale, che fulmineamente polverizza gli ultimi avamposti di resistenze irrazionali, accompagnandoci, senza moralismi, né pietismi, all’interno di argomentazioni visive, che hanno la stringenza retorica dei sofismi socratici. In fondo la tesi è che in un mondo così, sempre in movimento, davvero ha poco senso parlare di migrazione come di un fenomeno da temere o esorcizzare. Questo è quello che insegna la cronaca coi suoi vettori di un’economia globalizzata; ma, questo, è quello che insegnano anche la storia – le immagini dei migranti europei verso l’America d’inizio ‘900 non possono non creare un disarmante straniamento – e perfino l’archeoantropologia – la Potnia, madre mitocondriale, che, volenti o nolenti, fa di tutti noi individui con un patrimonio genetico condiviso; quindi, a più forte ragione: che senso ha continuare a temere e discriminare? Per poi planare su Melilla, avamposto spagnolo in territorio africano, terra multietnica e multi culturale, in cui questa contraddizione diventa ancor più dirompente. Ѐ qui che vive e opera quel Pau Palacios fotografo e caposaldo di Agrupación Señor Serrano, che intende la fotografia non solo come una forma d’arte, ma di testimonianza, anzi tutto. Con la sua contraddizione fra rasserenanti verdi campi da golf – luogo di relax della buona società – e quella fortificazione perimetrale, che ne fa miraggio-e-bunker, Melilla diventa l’emblema dello scontro fra un Occidente benestante e l’inarrestabile avanzata dei diseredati; notevole, in tal senso, la lunghissima presa diretta delle oltre 2000 miniature sul palco a simboleggiare una peregrinazione silente, immobile, quasi, eppure inarrestabile perché insita nella natura di qualsiasi essere vivente. Lenta, lo dicevamo, ma mai scontata, nella successione di bimbi che gattonano insieme alla altre specie animali: non diversi e non altrove rivolti, nonostante le guerre, i carri armati, gli interessi economici simboleggiati da petrolio, diamanti, banconote, inquinamento e tutto ciò che ci sospinge tutti, come in ancestrali flussi migratori, verso mete capaci d’essere vie di scampo e di salvezza. “Anche i nostri nonni migrarono. E noi e i nostri figli non viaggiamo alla ricerca di nuove opportunità?”, ci si chiede.

Molte le suggestioni visive, che stimolano riflessioni a più livelli. Intervallate da altre immagini a vario titolo tratte dalla realtà, a ondate tornano, gli hitchckocchiani spezzoni in tecnicolor, quasi a dirci che la paura – uccelli immaginari – e non i migranti sono il vero nemico. E mentre verrebbe da replicare che, forse, le cose sono un po’ più complicate di così – questioni economiche e di ordine sociale, alla base -, di certo questo denso e ben congeniato momento di riflessione visiva spezza senz’altro le ali alle questioni più legate a razzismo, pregiudizio e xenofobia. E, in fondo, quando il teatro – se così possiamo ancora chiamare questo genere di commistione performativa – arriva a tanto e con una qualità e di pulizia di questo livello, senza trascinarci per il crine del patetismo, né abbindolarci con una facile retorica demagogica: cosa chiedere di più?

Francesca Romana Lino

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novembre, 2024

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