Nicola Russo e la vecchiaia: mai (vecchi) per niente

“Vecchi per niente”, testo e regia di Nicola Russo e ispirato a “La forza del carattere” di James Hillman è soprattutto un testo ellittico.

Nel titolo, anzitutto: dove il sottinteso è quella negazione della vanità della quarta età, che, da pittoresca immagine di ‘vecchietto sulla sedia a dondolo accanto al caminetto’ – con tanto di copertina e gatto, nella più stucchevole delle riproduzioni -, qui si ribalta in altro. Non più baluardo di una saggezza sufficientemente accorta da averlo saputo traghettare fino ai limiti di un’età insperata ai più, ai giorni d’oggi ‘anziano’ è sinonimo di cosa?
Certo di ‘peso’, per un certo verso. Peso per sé, anzi tutto – nell’acuta coscienza di non esser più in grado di bastare a se stessi – oltre che per la comunità – i familiari, che ne devono sostenere la gestione, ma poi anche la collettività, chiamata ad ammortizzarne il costo sociale. Così alla fulgida immagine dei ‘Sette saggi’ o della ‘gherousia’ – (dal greco ‘gheros’, ‘vecchio’, appunto), corrispettivo spartano del ‘senato’ romano (dove ‘senex’, ugualmente, sta per ‘vecchio’) – la storia del pensiero antropologico ha via via sostituito figure fragili, sconnesse, dimentiche di sé. Figure involute e di cui farsi carico: con tutta la rabbiosa impotenza dei figli, che si sentono traditi da questa repentina inversione di ruoli – come, appunto, in una delle ultime scene della pièce, dove è la personificazione del ricordo paterno ad invitare a ballare l’ormai anziano figliolo, ma poi è quest’ultimo a condurre le danze: fino a ché non è il genitore stesso a sottrarsi, in una brusca interruzione, che ne lascia scoperto l’inemendabile lato di bimbo sfregiato.

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Eccolo, il vero senso del ‘declino’: non (sol)tanto fisico o mentale – demenza ed alzheimer fra gli spettri  peggiori di chi ancora conserva il ben dell’intelletto -, ma situazionale, sociale ed emotivo.
Parte da qui, l’ellissi semantica di “Vecchi per nulla” – di fatto l’iperbole di uno status quo forse non più tale. Esordisce con un cinematografico ‘campo lungo’ – e stretto -, che denota forse un’ istintiva voglia di presa di distanza. Ma poi richiede pure lo sforzo di ‘guardarci dentro’, in quel fenomeno che si agita lì, a fondo palco – spoglia e surreale delle quattro sedie vuote, saturata solo dal’accecante verde insindacabilmente ever green, che accende tanto il tappeto/fondale, che la colonna sonora.

E’ in questo non-luogo – sottile parodia di certe ‘ville’ capolinea di un’intera esistenza, nonostante i colori ammiccanti di un ostentato parco giochi -, che entrano alla spicciolata i quattro. Attoniti, a tutta prima – e poi via via divertiti -, Benedetta (Barzini), Teresa (Piergentili), Agostino (Tazzini) e Guido (Tonetti) con modulata bravura interpretano se stessi, riproponendo stralci dei discorsi rubati alle interminabili chiacchiere di quei luoghi. Nessuna concessione alle ossequiose cerimonie rituali. I vecchi rivelano subito quel lato graffiante ed intransigente, che spesso segna i pretenziosi deliri di chi non ha più nulla da perdere. Nessuna pietà: né verso le brutture degli altri – con cui son costretti a convivere -, né verso le proprie. Nessuno sconto di pena neppure nell’evocazione dei ricordi, ingombrati dalle ingombranti figure genitoriali, efficacemente resi da Laura Mazzi e Marco Quaglia – impegnati in una restituzione attoriale anch’essa di taglio cinematografico, ma con le coordinate temporali retro datate al modello anni “50. Ma non c’è spettacolarizzazione delle emozioni, né giudizio. Forse per questo funziona, nonostante l’ossimoro visivo nel veder affiancati due attori più giovani – eppure ingabbiati in abiti, movenze e cliché dichiaratamente desueti – a vecchi dalla contemporaneità sconcertante – grazie anche all’agilità dei due nell’interpretare quei sentimentalismi e quelle nevrosi sottili, che ritroviamo in molti bizzosi personaggi della cinematografia di quegli anni.
Per paradosso, la recitazione dei ‘vecchi’ invece è improntata ad un iper realismo – non edulcorato rispetto ai condizionamenti anche fisici del procedere dell’età -, che sconfina quasi nel surreale. Ne è un esempio quel permettersi nessuna reticenza tanto da arrivare a confessarsi come incauti adolescenti, ma con in più l’incontenibile sfrontatezza dei vecchi, che sanno già di essere comunque ben over game: e diventano capricciosi e prepotenti, talvolta, o  biascicanti accattoni d’ attenzioni – tiranneggiando o  piagnucolando, secondo i casi. Né si fanno scrupolo nel confessare le proprie umane debolezze – presenti o passate -, tracimando ogni reticenza specie nell’immaginare il proprio funerale – prendendosi la libertà di giocare ai registi: suggerendo quasi, ai convenuti, ciò di cui parlare, ascoltandone le sfrontate confidenze sul ‘caro estinto’ e chiedendone impietose impossibili dichiarazioni d’affetto, prima di emettere i propri insindacabili verdetti sui sopravvissuti.

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Ma il rischio è che il gioco sfugga di mano. “Basta che non ci pensi… Basta che chiudi la porta.”, dicono. E, ancora: “Tutti i ricordi entrano dalle porte. Non si possono far entrare tutti questi ricordi: non ce lo abbiamo tutto questo spazio, capito?”. E intanto tornano alla memoria tutte le scene precedenti, in cui soli elementi di light design erano state quelle sagome luminose ad indicare  porte aperte – come durante il ricordo del funerale del padre di Teresa, Al loro accendersi, inaspettatamente si dilaniavano squarci in quei personaggi improvvisamente sbalzati in un altrove da ‘mondo parallelo’ – alla ‘Matrix’. Cinematografiche anche le sequenze brevi nel narrare e quell’effetto dissolvenza, che spesso il regista è riuscito ad ottenere, facendo sfilar via silenziosi i personaggi, complice l’abbassarsi delle luci e l’accendersi dell’attenzione sul particolare del racconto di un personaggio, subitaneamente trasformato nel focus di quello di un altro.
Ma, alla fine, tutto è luce. Nel gioco svelato, ciascuno dei quattro focalizza le tappe salienti della propria esistenza. Non sono le mete del comune sentire, però, a scandirne le biografie; ma tutto sembra convergere verso un unico sole: le proprie passioni, il proprio sano egoismo come elisir di lunga vita; ed il resto da tener chiuso fuori dalla porta.

Al teatro Franco Parenti, ancora fino a domenica 22 febbraio.

 

Dal 3 | 22 febbraio 2015
al Teatro Franco Parenti di Milano

” VECCHI PER NIENTE “

Testo e regia di Nicola Russo
ispirato a La forza del carattere di James Hillman
con (ordine alfabetico)  Benedetta Barzini, Laura Mazzi,  Teresa Piergentili,  Marco Quaglia,  Agostino Tazzini,  Guido Tonetti 

scene e costumi Giovanni De Francesco luci Cristian Zucaro foto e grafica Liligutt Studio 

Produzione Teatro Franco Parenti in collaborazione con Monstera

Francesca Romana Lino

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1 commento su “Nicola Russo e la vecchiaia: mai (vecchi) per niente”

  1. salvatore siragusa

    la recensione vale la piece ,per entrambe ripeterei il giudizio di fantozzi sulla corazzata P.Però bravi gli attori
    S.S.

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