La suggestione è uno degli ultimi scritti ibseniani – “Il piccolo Eyolf”, appunto -, ma la messa in scena è quella di una compagnia di giovani: la Famiglia Mastorna, ovvero Emilia Scarpati Fanetti, Jacopo Crovella e Michelangelo Zeno, qui drammaturg e regista. Non sono nuovi, del resto, a questo tipo di operazione: già nella passata stagione, sempre allo Spazio Tertulliano, di loro ricordiamo “Superfamily Party” – “deliberatamente tratto da ‘Ritter, Dene, Voss’ di Thomas Berhnard”, come si leggeva dal foglio di sala -, dove, anche in quel caso, traducevano attraverso i loro giovani corpi, sentimenti e cancrene, che nel testo originale erano il risultato di annose e deliranti fermentazioni familiari. Non tanto lontano, così, qui ritroviamo ancora una volta sentimenti abissali e dinamiche sclerotizzate, che a tutta prima sembrano cozzare con quei volti anni luce lontani da le physique du rôle. Tanto più efficace, dunque, la scelta di tradire il registro realistico, giocando invece alla formalizzazione, simbolizzazione e scomposizione.
Così, dopo il momento iniziale – diluito nella sua pesantezza simbolica da un rallenty talmente estenuante da portarci esattamente a temperatura -, gli agiti disfunzionali di coppia vengono raccontati non dall’interazione diretta fra Rita e Alfred, ma dallo iato fra azione e parola. Infatti i due sposi – che per tutta la prima parte continuano ad indossare gli immacolati ed algidi abiti da cerimonia, nonostante tutto – in scena sono collocati ai lati opposti della ribalta, fronte pubblico ed illuminati, ciascuno, da luce diretta ed esclusiva: e ciò la dice lunga sul tipo di relazione che esiste fra loro. Eppure questo sublima, ma non azzera la componente quasi morbosa della loro dinamica: quando lei, ad esempio, in uno slancio di possesso mima la stretta al collo del marito, la vediamo realmente, la reazione asfittica che modifica il volto di lui – facendolo scivolare via dal cono di luce e accompagnandolo verso nuove dinamiche. Sembrerebbe aver vinto lei: non la trascurerà più per scrivere il suo libro. Ma quel che la donna ignora è che le toccherà combattere contro un ben più temibile avversario: il piccolo Eyolf, quel figlio storpio, di cui lei ha paura – e che a stento tollera -; un ‘ratto’, come lo definisce: e come ci suggerisce il persistente squittìo di sottofondo. Poi il bimbo annega – in circostanze alquanto sospette… – e questo non può che incendiare la situazione. Eppure qui Zeno se la gioca, ancora una volta, nel raffinato esercizio formale della simbolizzazione minimalista. Del resto: “Come far recitare una scena così forte ad attori tanto giovani?”, sono parole dello stesso regista. Così la scelta è quella di congelare: così in linea col la temperie scandinava. La Fanetti si cristallizza in una statua di sale: la bocca aperta, gli occhi sgranati e quella stessa fissità, che lei per prima racconta essere stata quella del bimbo in fondo all’acqua, come i compagni di giochi le avrebbero riferito. Lui la spoglia – con movimenti leggeri e dalla lentezza estenuante: in cui galleggia la colpa, forse, per quella distrazione fatale… -, togliendole l’abito e gli orpelli della ‘sposa perfetta’ – un dettaglio: le toglie fin la biondissima parrucca, come a dire che è finito per sempre il tempo dell’illusorio ed ipocrita ‘tutto per bene’. In entrambi si palesa la colpa: nella macchia nera che Alfred lascia sul ventre di Rita e che poi si ritrova – non sostanzialmente diversa – sulla camicia di lui, quando si apre il candido panciotto. Ed è quello stesso stigma che campeggiava nel drappo, che li aveva uniti-e-divisi nella scena iniziale delle nozze; e che tornerà – a mo’ di sudario – nel gesto quasi pietoso di Alfred, nell’ultima scena, a coprire il volto di Rita, una volta ritrovata una parvenza di complicità nella comune missione pro bimbi disagiati. Certo: in mezzo c’è tutto lo strazio e l’incommensurabile tragedia di due esistenze dilaniate dal dolore e dai sensi di colpa. Geniale, affidare il parlato – nella scena del racconto della tragedia – alle voci registrate, mentre i corpi – l’uno pietrificato in un dolore alla Niobe, l’altro rallentato in quel distacco derealizzato, che ben conosce chi abbia attraversato le regioni dello shock da perdita – sembrano essere soltanto dei simulacri vuoti: delle casse di risonanza, la cui inerzia soltanto consente di passare alla scena successiva, in cui finalmente la paura, il rimorso ed il dolore si sciolgono in un contegno certo allucinato, ma più riconoscibilmente umano.
Un lavoro preciso, centellinato, attento e coraggioso, quello della regia di Zeno: che sceglie la luce, l’asetticità del bianco e l’essenzialità di pochi elementi coreografici – il drappo marchiato dall’onta della colpa: l’egoismo? La possessività? La gelosia esclusivistica? Il perbenismo? – a canone della sua trasposizione in chiave meta realistica. E non da meno i due attori – Emilia Scarpati Fanetti e Jacopo Crovella -, dalla mimica e capacità di tenuta davvero ragguardevoli.
Allo Spazio Tertulliano ancora solo fino a domenica 25.
IL PICCOLO EYOLF – The Original Son
da Henrik Ibsen
testo e regia di Michelangelo Zeno
con Emilia Scarpati Fanetti e Jacopo Crovella
produzione: Famiglia Mastorna
Dal 21 al 25 maggio 2014
Allo Spazio Tertulliano
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