“RIP”: Afasiche visioni ai Linguaggi Creativi

MILANO – Senz’altro un’operazione interessante, quella di far parlare direttamente i fatti, i corpi, le circostanze; anche se, poi, quel che davvero avrebbero da dire, ce lo rivelano soltanto in modo reticente: come succede anche nella vita. Ed è proprio della quotidianità, che si tratta, in questo “RIP Raian_Isa_Patti” di Vioi Collectus e per la regia di Chiara Cicognani, in scena ai Linguaggi Creativi ancora venerdì, sabato e domenica prossimi, dopo il week end d’esordio dall’8 al 10 novembre.

RIP RAIAN_ISA_PATTI, Vioi Collectus
RIP RAIAN_ISA_PATTI, Vioi Collectus

Accolto da una video installazione su Milano – probabilmente qui stigma di una metropoli qualsiasi -, il pubblico prende posto già bombardato da una raffica d’immagini: grattacieli, case, piazze, traffico, metropolitana, via vai, fretta, strade, folla, business… e – all’opposto – periferie abbandonate, murales, graffiti, navigli, sottopassaggi, ferrovie, degrado… e il viso irragionevolmente ilare di un ‘vu cumprà’, che vorrebbe venderti qualcosa… e lo strascinarsi – dolente – di un vecchio, di cui viene inquadrata soltanto la schiena…

Poi, la proiezione finisce e ci si trova catapultati nel buio di un palcoscenico vuoto, segnato solo dalla tracciatura degli interni di un anonimo appartamento condiviso -: ma l’atmosfera alienante, quella, permane…

E accade che, in un assordante silenzio verbale, entra in scena una delle coinquiline – confortante vestitino anni “50 -, mentre gli altri due – nella penombra e coperti dall’anonimato di felpe nere col cappuccio – introducono la scarna mobilia. Così si anima il luogo in cui si consumerà la convivenza. Si tratta di una sorta di ménage à trois – dal retrogusto borderline -, in cui mentre ciascuna delle due donne ha, almeno all’ inizio, un suo ruolo ben specifico – angelo del focolare, l’una (che non calza neppure le scarpe, tanta è la sua fedeltà alle mura domestiche), un po’ femme fatal, un po’ dark lady, l’altra (che, invece, svetta ora da altissime decoltées di vernice nera, ora in grintosi stivali fino al ginocchio) -, ‘lui’, al contrario, sembra non sapersi decidere fra l’affetto per la prima e la passione per la seconda, innescando dinamiche pericolosamente prevedibili…

Ma, al di là della trama – una storia di precarietà e desolazione esistenziale, prima ancora che sociale o economica -, quel che colpisce è la perizia di Vioi Collectus nell’intrattenere un pubblico di teatro-di-parola senza emettere una sola sillaba – compensano, nei momenti salienti, quei versi (in)umani con cui vien dato spessore ai personaggi e le discrete colonne sonore di accompagnamento -. Ci riescono, i tre giovani attori, perché sanno ugualmente esprimere le passioni/pulsioni, che animano i loro personaggi attraverso un lavoro corporeo ben studiato e centellinato. Alcune immagini: quella della ragazza ‘angelicata’ – Alessia Bedini -, che esprime il suo affetto – un po’ voyeur ed un po’ naif -, rivisitando i luoghi abitati dagli altri due (il letto dov’era disteso ‘lui’, anzitutto, o il bagno, dove ‘lei’ aveva appena finito di fumare) e amplificando il gesto dell’odorarne gli aromi, senza che, per questo, arrivi esagerato o poco credibile; o quel simulare il suo desiderio, inscenando, con le sue stesse mani, la sublimazione di un’ ipotetico incontro negato – dopo esser partita dall’infantile gioco del chiacchiericcio fra due mani-‘papere’ ombre cinesi -; i momenti di complicità fra le due amiche, come quando Valentina Rho intreccia amorevolmente i capelli della coinquilina o s’ intrattiene con lei sul lettone, giocando insieme ad indossare i collant in modo sensuale e divertito; o, al contrario, il momento di scontro fra le due donne: scenicamente reso attraverso il gesto – secco – della conta, divenuto, poi, braccio di ferro, col sopraggiungere/subentrare del ragazzo – Matteo Barbé.

Quanto al messaggio, invece, già ho detto della probabilmente voluta cripticità – lo spettacolo, non a caso, termina com’era iniziato: con una pellicola, che lascia aperto l’epilogo -: in più, degno di nota è tutto il discorso sulla claustrofobia esistenziale – asfittica e disarmante -, sulla violenza, sulla frustrazione, che convoglia in sentieri non voluti, sull’impossibilità di sottrarsi a rituali reiterati, anche quando questi abbiano perso qualsiasi ragione di continuare ad essere e si siano trasformati in sinistre trappole comportamentali.

Dunque una ben pensata e preparata sfida all’afasia, in un mondo che ci bombarda di parole, suoni, rumori assolutamente privi di senso: e, così, le si può ben scusare certe ripetizioni e lungaggini, che, di tanto in tanto, ancora permangono.

Francesca Romana Lino

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novembre, 2024

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