Il teatrino di Brunello ritrova il suo sipario fra garbo e ironia

Rimasi colpita dal titolo del testo finalista Premio Hystrio 2012 “Funziona meglio l’odio”; rimasi colpita perché non ho mai creduto che “funzioni” così, ma, al contrario, che odio e provocazione non facciano che innescare un gioco al rialzo, da cui nessuno esce davvero vincitore. Per converso, nel corso degli anni mi è capitato di assistere a spettacoli che, giocando sulla corda sottile della poesia, del garbo, della gentilezza, del lirismo e dell’emozione sapientemente centellinata – come si fa con le essenze odorose o le erbe medicinali – , riuscivano a sortire effetti emozionali molto più dirompenti, profondi e duraturi. Risultati del genere più spesso vengono raggiunti attraverso quegli eccezionali strumenti di libertà che sono il teatro di figura e il teatro d’ombra: sbrigativamente liquidati sotto l’etichetta minor di teatro per ragazzi – come se poi questo tipo di pubblico non meritasse, semmai, una cura e attenzione anche maggiori -, di fatto non mancano, in questo settore, pure eccellenti esempi di spettacoli pensati per un pubblico decisamente adulto. Dalla “Donna di Porto Pim” di Teatro Gioco Vita – da poco nella programmazione del Teatro Munaro, spazio che Milano ha voluto dedicare a questo genere teatrale -, a quel “Sorry, Boys”, con cui Marta Cuscunà ha vinto il Premio Rete Critica 2017 – fra gli altri riconoscimenti al suo teatro coi pupazzi -, sono numerosi gli esempi di una vitale e solida produzione di questo genere, che, se certo conosce anche un lato sferzante e irriverente – dai “Muppets” agli “Sgommati”, solo per citare alcune delle più conosciute declinazioni pop -, è capace anche di offrirci chicche dalla grazia e delicatezza assolutamente uniche; prezioso esempio ne è lo storico lavoro della Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, che, come sempre, durante il periodo natalizio, anche quest’anno porterà in scena al Piccolo Teatro di Milano la sua favola (stavolta quella di “Hansel e Gretel”, dal 27 dicembre al 7 gennaio).

È sicuramente in questa cornice che s’inscrive anche “La guerra del sipario” di Gigio Brunello, scritto in collaborazione con quel Gyula Molnar, di cui ricordiamo, fra l’altro, il gioco di oggetti con attori “Piccoli suicidi”, passato al Festival di Santarcangelo nel 2012, ma che aveva già debuttato in quel “Micro-Macro Festival”, che, nel lontano 1987, aveva ospitato perfino Kantor con “La macchina dell’amore e della morte”. Io l’ho vista il 19 dicembre all’interno della rassegna di Teatro “Stanze”, per l’occasione ospitata in Cantierememoria con eventi fino al 6 gennaio 2018 a Milano, Casa della Memoria, appunto.

È un gioco di garbo ed ironia, questo teatrino di burattini, costruito con elementi profondamente artigianali, che mescolano odori e materiali di bottega come il legno e il panno grezzo, le tempere dal tratto un po’ naif, non meno di quanto lo siano alcuni burattini, come il cane Peluche, ad esempio, dalle fattezze più abbozzate che definite, ma poi anche dall’espressività e comicità coinvolgenti, pur nelle poche, precise e soprendenti azioni sceniche gigionescamente ed efficacemente ripetute. Accanto a ciò, la sagacia di una drammaturgia capace di sovrapporre diversi piani narrativi, moltiplicando i bersagli della sua satira: surreale, ma sempre in punta di fioretto. È la guerra, il nemico dichiarato: la Seconda Guerra Mondiale, s’intuisce dai riferimenti a quella linea del sipario, che certo strizza l’occhio alla Linea Maginot, così come anche allo sciocco mastino Pit(bull), emblema di un’ottusa obbedienza e scagnozzo del Generale-Coccodrillo, animale che, quanto poch’altri mai, dice “ferocia”, “freddezza” e “calcolo”, caratteristiche certo attribuite ai militari del Terzo Reich. Ma, in filigrana, la guerra è anche quella, quotidiana, di quei burattini/attori col loro lunario da sbarcare. Mario e Linda, i protagonisti, erano stati costruiti per recitare il mito di Filemone e Bauci; e che ora restano lì, in questo limbo dalla prosaicità commovente, come quella degli anziani della “Metamorfosi”, fra soffritti e bisticci, amici da evitare e una tenerezza, che comicamente li avvince, come i tralci delle piante in cui furono trasformati gli anziani coniugi di Ovidio. Di non minore effetto evocativo è il terzo livello narrativo, in cui la guerra fra burattini metafora di tutto quello che è arte, teatro, mitologia, letteratura, favole e fantasy come ben si evince dall’elenco dei caduti scritto, in bella grafia, sul nuovo sipario finalmente tornato al suo posto – e peluchessfidante ossimoro a indicare quei “prepotenti”, che i burattini li vorrebbero, appunto, confinati solo delle culle e nei teatrini dei bambini – è raccontata dagli scambi di battute di una struggente Turchina, reinventatasi crocerossina per poter stare in prima linea e avere notizie del suo adorato Pinocchio, e un Dottor Balanzone, sbruffone quanto basta, ma poi anche sinceramente preoccupato che quella fatina non perda il senno, travolta dalle brutalità della guerra. 
Però è una favola, questa Guerra del sipario”, ergo: a lieto fine – non prima, però, che il policromatico burattinaio  abbia dispensato stoccate sulla vanità della prepotenza, strizzando l’occhio al lato profondamente umano, intrinsecamente comico e intimamente surreale della vita di tutti i giorni. E lo fa nascosto dietro allo schermo del suo teatrino: da qui evoca, nomina, intrattiene e, alla fine, affonda, senza mai lasciare che il pubblico si adagi, ma richiamandolo a un’attenzione costante. Sono le invenzioni ironiche a tenerci desti – dagli stacchetti di Peluche, ammaestrato ballerino, ai bizzarri bollettini di guerra del tacchino Curcurucù o all’improbabile, ma salvifico accordo fra Pit e il randagio, che, salvando la vita a quest’ultimo, ci mostra ancora un’altra declinazione dell’umano – oltre che con un uso costante della voce e della parola a riempire perfino gli inevitabili vuoti di scena del cambio marionetta, così da renderli, di fatto, non percepiti. Già, perché poi bastano pochi ma ben codificati oggetti a rinnovare il patto drammaturgico col pubblico, quando sia chiaro il senso di quel che si sta facendo. Così non fa specie che gli anziani coniugi siano resi attraverso sole teste – ma dall’intagliatura attenta – e un gesticolare di mani, in grado di restituirne tutta la ruspante vivacità o che sia proprio in grazia al suo abbozzato e quasi informe ensemble di pelliccia che il cane Peluche – nel racconto d’Ovidio era un’oca, cresciuta con una dedizione quasi filiale, anche se poi Filemone si mostra pronta a macellare pur di  sfamare degnamente gli ospiti divini giunti sotto mentite spoglie a mendicare un tozzo di pane alla loro umile dimora – riesce a strappare, in modo del tutto credibile, il pur fulmineo attimo di verità, in cui il Generale Coccodrillo riflette sulla durezza e freddezza delle proprie scaglie (e di quelle di sua madre), provando quasi una sorta di nostalgia per la tenerezza mai vissuta evocatagli, invece, dalla morbidezza del suo manto. “Perché tutto è bene quel che finisce bene”, lo abbiamo detto: in fondo è una favola, questa, e col suo garbo e la sua cura attenta e centellinata, riesce a portarci là dove chissà se ci avrebbe saputo condurre un racconto basato sulla sferzata e sull’odio.

 

Francesca Romana Lino

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novembre, 2024

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